Custodes Bestiae di Lorenzo Bianchini

Come sempre quando mi appresto a parlare di un film di Lorenzo Bianchini ho il cuore in gola perché non è ormai più un segreto per nessuno che questo regista della nuova ondata dell’indipendente italiano riesca a darmi emozioni come nessuno ci riusciva da un bel po’. Non l’ho scoperto “in ordine cronologico”, ma dal suo quinto film, Oltre il Guado, e da allora, pian piano, ho cercato di mettere al loro posto tutti i tasselli della carriera di un regista che, a mio parere, ma non solo mio, non ha sbagliato un colpo. Dopo avervi parlato, in questa sede, di Occhi del 2010 e del suo ultimo gioiello, L’Angelo dei Muri, del 2021, oggi voglio parlarvi della seconda pellicola del regista friulano, Custodes Bestiae, classe 2004. Giunta a tre anni di distanza dalla sua prima regia, quel Lidrîs cuadrade di trê che con pochissimi mezzi a disposizione riesce completamente a spiazzare lo spettatore usando praticamente solo una scuola e due attori, Custodes Bestiae vi si accomuna sia nella riproposizione del friulano come lingua parlata (qui solo in alcune scene, lì per tutta la durata del film), sia nella scelta dei due protagonisti, Massimiliano Pividore e Alex Nazzi. Il Diavolo, come si può immaginare dal titolo, è ancora una volta il grande protagonista di questa storia, e Bianchini torna a riproporci il tema delle sette sataniche, sotto però una diversa angolazione rispetto al primo film. Se possibile qui scende ancora più a fondo, è ancora più oscuro, spaventoso, gettando le basi in orrende tradizioni ancestrali che vanno di pari passo coi culti cattolici, fino a confondere e fondere insieme male e bene, Dio ed il Demonio, Inferno e Paradiso. Ama il perturbante, Bianchini, lo dice e lo sottolinea spesso, e direi che qui, il Perturbante, regna sovrano. Nel 2010 il regista Giuliano Giacomelli, che ha collaborato con Bianchini sul set, ha fatto uscire, insieme a Lorenzo Giovenga, un film che a Custodes Bestiae si ispira non poco, La Progenie del Diavolo, ma questa è un’altra storia….giusto per sottolineare il fatto che non è da tutti essere omaggiati, ed a tratti anche un po’ imitati, solo dopo pochi anni dall’uscita di un film. Ed è in queste piccole cose che l’unicità di Bianchini viene sempre, inesorabilmente, a galla, con buona pace degli invidiosi che non si fanno una ragione sul come coi pochi mezzi a disposizione questo talentuoso regista friulano riesca a realizzare delle perle che si prestano davvero a ben poche critiche negative.

Il professore universitario Dal Colle, dopo aver acquistato su una bancarella delle antiche fotografie, svolge alcune ricerche per suo conto, ed infine convoca a casa sua il giornalista Max Londero, per esporgli i suoi risultati e far sì che questa, a suo dire, sconvolgente scoperta, possa essere resa nota. Purtroppo però Dal Colle non riuscirà a dire quasi nulla a Max perché la loro chiacchierata è interrotta dall’arrivo di qualcuno; Max aspetta invano il ritorno del professore, che pare però essere svanito nel nulla. Il giovane giornalista, incuriosito dalla faccenda, comincerà quindi ad indagare per conto suo, partendo dal materiale contenuto in una cartellina che il professore gli aveva lasciato prima di scomparire. Quello che scoprirà andrà ben oltre ogni possibile immaginazione umana, e lo porterà all’interno di una storia surreale che affonda le sue origini nel medioevo cristiano, nei secoli bui, quando un’inquietante carrozza percorreva quelle terre con all’interno un carico quanto mai singolare. Come mai tutti coloro che hanno avuto a che fare con quelle strane fotografie sembrano aver perso il senno? Cosa si nasconde nei sotterranei della piccola chiesa di Còmeglians, in provincia di Udine? Perché tanta omertà?

Torna a girare nel suo Friuli, Bianchini, e ce ne ripropone di nuovo i suoi lati più oscuri, gotici, misteriosi. Qui i nomi delle località vengono addirittura cambiati poiché si dice che l’antefatto sia reale, e che si parta, nel raccontare la storia, dal ritrovamento di strani ex-voto di forma caprina….chissà…fatto sta che il mistero viene presentato molto bene, avviluppa, avvolge lo spettatore in un’atmosfera carica di zolfo, e ci si lascia volentieri trasportare dalle mani sapienti del regista sempre più giù, verso l’Inferno, da cui, una volta vistolo, non sarà più possibile risalire senza portarsene dentro una parte, che modificherà per sempre il nostro essere. “Curiosity killed tha cat”, si dice, ma alla fine chi, davanti a un mistero irrisolto ed a portata di mano, riuscirebbe a girarsi indietro ed abbandonare le ricerche? Sicuramente non Max, giornalista d’assalto molto ben interpretato dall’attore friulano Massimiliano Pividore, che ritroveremo anche nel noir Film Sporco, sempre diretto da Bianchini, del 2005.

Come accadrà successivamente in Occhi, pure in Custodes Bestiae Bianchini farà ruotare il fulcro dell’azione attorno a un antico affresco, anche qui per buona parte occultato, come a volerne celare per sempre l’orribile segreto, e riportato poi alla luce durante dei lavori di restauro diretti proprio dal prof. Dal Colle. Come succedeva in diversi capolavori del cinema di genere italiano, come Il Medaglione Insanguinato di Massimo Dallamano del 1975 o La Casa dalle Finestre che Ridono di Pupi Avati del 1976, ma anche gli argentiani L’Uccello dalle Piume di Cristallo (1970) e Profondo Rosso (1975), una pittura, che sia un quadro o un affresco, apre le porte verso oscuri segreti che sarebbe stato meglio non indagare, e che porteranno i protagonisti sull’orlo di un vero e proprio baratro. Manca completamente l’ironia nei film di Bianchini, l’orrore, la paura, il demonio, sono tutte cose che vengono prese estremamente sul serio, e sebbene non voglia spingermi a tanto, affermando che lo stesso Avati abbia preso spunto dal regista udinese, tuttavia non si può non fare un paragone tra la rivelazione finale di Custodes Bestiae e quella dell’ultimo grande horror avatiano, Il Signor Diavolo (2019), anche quello ambientato tra chiese e segreti occulti sepolti nella memoria delle medesime. Dio ed il Demonio che convivono, malgrado le apparenze, nei luoghi sacri, culti che si incrociano, si fondono, albergano sotto lo stesso tetto, e riportarli a galla non può che significare disgrazia totale per i malcapitati che tentano l’impresa.

Usando uno stile ancora più essenziale e controllato che in Radice Quadrata di Tre, quasi documentaristico, Bianchini ci trasporta dal contemporaneo al passato remoto, utilizzando flashback squisitamente folk horror, con quello spaventoso carretto che vaga di notte per le campagne, e che ricorda tanto da vicino, con le sue lucerne accese a rischiarare il buio boschivo, quello del film di Victor Sjöström Il Carretto Fantasma, classe 1921, tratto dall’omonimo romanzo delle scrittrice svedese Selma Lagerlöf. Lì a guidare la carrozza piena delle anime dei defunti era la Morte in persona, ma vi assicuro che qui i Custodi della Bestia non sono meno inquietanti e spaventosi, nella loro missione di una crudeltà estrema che strizza l’occhio, ampliando però decisamente il raggio d’azione, a  classici come Rosemary’s Baby di Roman Polanski del 1968 e Omen – Il Presagio di Richard Donner del 1976. Certo, il film si snoda sui sentieri della lentezza narrativa spinta quasi all’estremo, che Bianchini renderà un suo marchio di fabbrica anche nei successivi lavori, tranne quel Film Sporco che segue dei ritmi quasi tarantiniani, ma che saranno invece la cifra stilistica comune a lavori quali Occhi, Oltre il Guado e l’ultimissimo L’Angelo dei Muri. Coloro che cercano ritmi concitati e spinti all’estremo potrebbero astenersi quindi dalla visione, ma io mi sento comunque di consigliarlo anche a loro perché in fin dei conti la scoperta di queste realtà spaventose, pian pianino e senza grossi sobbalzi, se non nel quasi psichedelico finale, serve a costruire un pathos ed una tensione tali che si tagliano letteralmente col coltello. Gli inserti in dialetto friulano non fanno che rendere più verosimile la vicenda, avvicinando questo lavoro, a tratti, ad un mockumentary. Nel finale allucinatorio e completamente privo di speranza fa capolino la dilagante follia a cui giungono spesso i protagonisti dei racconti del Solitario di Providence, Howard Phillips Lovecraft, che si riducono quasi sempre come i personaggi di questo film, nel voler esplorare delle realtà troppo grandi per una qualsiasi mente umana. Non si è mai preparati, fino in fondo, all’incontro col perturbante, che questo sia rappresentato da Dagon, da Nyarlathotep, o semplicemente dal Diavolo, dalla Bestia. Come nel quasi coevo e bellissimo esperimento filmico di Federico Greco e Roberto Leggio, Il Mistero di Lovecraft – Road to L., anche qui riecheggia bene la degradazione celata nella cupa realtà provinciale, propria del racconto dello scrittore di Providence La Maschera di Innsmouth, e perfettamente resa solo qualche anno prima dal Maestro Stuart Gordon nel suo Dagon – La Mutazione del Male, produzione hecha en España.

Bianchini non crea mai nulla di sana pianta, ma parte sempre da quel folklore friulano in cui sono state immerse la sua fanciullezza e la sua adolescenza, così influenzato dalle leggende nordiche e slave, per poi però plasmare a suo piacimento questa materia comune nelle sue sapienti mani d’artista (e guai a chi prova a negarlo) fino a renderci un prodotto finito assolutamente sorprendente, considerati per altro i pochissimi mezzi a disposizione. E così la famosa leggenda dei benandanti, adepti di un culto di origine contadina basato sulla fertilità della terra, diffuso in Friuli intorno al XVI-XVII secolo, si trasforma in qualcosa di più squisitamente satanico, e considerando che nella vicenda fu invischiata addirittura la Santa Inquisizione, direi che la cosa non stona poi molto. Anche la provincia udinese ed il territorio friulano emergono come protagonisti nelle belle riprese effettuate presso la splendida Villa Manin a Passariano, al Forte di Osoppo, nel paesino carnico di Còmeglians, a Santa Margherita del Gruagno, ad Aquileia e nella stessa Udine. Unica piccola pecca, assolutamente tralasciabile, del film, è l’uso di riprese in digitale di non altissima qualità, ma assolutamente niente che possa far storcere il naso in una produzione no-budget così ben realizzata. La regia ispirata e professionale di Bianchini è capace assolutamente di obliare qualche piccolo difetto, e la sceneggiatura solida e ben strutturata, sicuramente più articolata e matura di quella di Radice Quadrata di Tre,  fa il resto.

 

https://www.imdb.com/title/tt0898905/

 

 

Ilaria Monfardini