After work: l’etica del lavoro secondo Erik Gandini

L’alacre ed eclettico regista autoctono Erik Gandini, autore già d’interessanti pellicole d’impegno come Videocracy – Basta apparire e La teoria svedese dell’amore, in grado di scandagliare tematiche piuttosto neglette, se non risapute, svelandone invece l’urgenza civile nonché umana celata sotto la cenere dell’apatia, approfondisce adesso la questione del lavoro con After work.

Lo fa sulla scorta della tecnica documentaria, servendosi dell’egemonia del carattere d’autenticità, legato a filo doppio alla crudezza oggettiva, sul colpo di gomito della recitazione.

La scrittura per immagini, priva così del segno d’ammicco garantito dal gioco fisionomico degli interpreti che aderiscono ai personaggi incentivando il processo d’identificazione del pubblico dai gusti semplici, punta lo stesso a conferire notevole forza significante al linguaggio dei volti. Lo scopo consiste nel congiungere gli eloquenti silenzi dei vari lavoratori interpellati al senso compiuto dell’aforisma introduttivo di Aristotele sugli spartani: “Furono stabili durante la guerra, ma caddero dopo aver trionfato, perché non conoscevano una vita di pace”. Nondimeno l’annoso problema sociale degli stakanovisti schiavi della loro professione, ed ergo privi di un’identità vera e propria, non ricava particolare linfa dai piani ravvicinati, dalla pur intransigente cura dei dettagli, dall’analisi degli stati d’animo mandata a effetto dall’ambiziosa linearità stilistica. Contraddetta, tra l’altro, almeno in parte, dalla modalità esplicativa dei monologhi interiori pronunciati ad alta voce.

Gli elementi indicativi ed emozionali ricercati nella dialettica degli sguardi pagano dazio in tal modo alla velleità di dare un colpo al cerchio del rigore formale e uno alla botte dell’immediatezza contenutistica. L’accattivante carrello in avanti dell’incipit che allude all’arduo percorso che il film s’accinge a compiere, alcune inquadrature di quinta lungo i corridoi delle meste abitazioni sulla falsariga dei noti pedinamenti d’ascendenza zavattiniana, l’analogia dell’azione lavorativa e dell’azione casalinga agognata per mezzo dell’ovvio match-cut visivo, l’isolamento dell’individuo oppresso dagli standard professionali, ingrandito dagli effetti stranianti del grandangolo, tradiscono l’inerzia delle idee prese in prestito. L’impasse dei nani sulle spalle dei giganti affiora pure nell’effigie degli uffici. Simili a quelli sviscerati da King Vidor nel capolavoro del cinema muto La folla per porre in evidenza l’incapacità dell’impiegato di distaccarsi dalle masse. Cosa resta, tralasciando i plagi camuffati da omaggi, o forse neanche, ad appannaggio esclusivo di After work? Le vicende personali dei lavoratori interpellati, prestatisi al setaccio della macchina da presa di Gandini, meritano senz’alcun dubbio rispetto.

Tuttavia l’intendimento di ciascuna testimonianza, assurta ad alienante confessione, trae anch’esso partito, seppur in filigrana, dagli affreschi introspettivi di Michelangelo Antonioni e dai sensibili apologhi esistenziali di Wim Wenders. Il rapporto coi territori eletti a location, dove l’ossessione dei fondi fiduciari traligna la virtù di riflettere l’altalena di scoramento ed euforia di chi per esempio antepone il dolce far nulla agli eccessivi carichi di lavoro, resta in superficie. Senza acquisire quindi l’opportuno status di attante narrativo. La babele linguistica dispiegata nel racconto, insieme ad alcuni movimenti di macchina da destra a sinistra comunque degni di nota, non è sufficiente ad andare oltre la deleteria percezione del déjà vu. Gandini certamente conosce il mestiere, al di là del palese tentativo di nobilitare la perizia sociologica coi sottintesi richiami all’estro dei riveriti maestri dei film di finzione, e tiene d’occhio il mix d’involuzioni ed evoluzioni delle nuove generazioni. Nonostante ciò After work presenta diverse scollature. Con il risultato di mettere troppa carne al fuoco, ingenerare false speranze nei cinefili d’infinita fede e perdersi in ritratti, fuori dalla luce riflessa dei rimandi citazionistici, d’esile spessore.

 

 

Massimiliano Serriello