Il mio posto è qui: uno spaccato sull’arretratezza e sugli aneliti di libertà

Reduce dai premi recentemente assegnatigli al Bif&st 2024, in virtù anche dell’affinità elettiva stabilita all’unisono dalle Film Commission di Calabria e Puglia per garantire allo spaccato storico del dopoguerra la capacità dei territori eletti a location ed ergo ad attanti narrativi di esporre, insieme al senso d’appartenenza, i profondi ed emblematici modi di reagire all’avversità degli eventi, Il mio posto è qui mobilita quindi la valenza della geografia emozionale per eludere l’impasse di qualsivoglia componente manieristica.

La regìa in tandem di Cristiano Bortone e Daniela Porto, che decide di tradurre per il grande schermo il proprio omonimo libro al femminile tenendo conto della lezione impartita sia dal neorealismo rosa sia dai nostalgici apologhi sul tempo perduto tipo Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, sembra voler tributare un omaggio alle donne affrancate dall’egida maschilista al termine del secondo conflitto mondiale al pari dell’applauditissimo apologo muliebre C’e ancora domani di Paola Cortellesi.

Tuttavia, a ben vedere, all’aria deliberatamente retrò dell’affresco manca l’ausilio fornito dalla fragranza dell’originalità per dare una debita spallata al muro dell’ignoranza e della prevaricazione attraverso l’accorto mix di compositi modi espressivi tipo il musical. Congiunto alla crudezza oggettiva per cogliere nella giusta misura il senso della trascinante sospensione dell’incredulità legata al bisogno di rivendicare il libero arbitrio attraverso pure l’agonato diritto al voto. La chiave di volta non è però delegata alla corsa alle urne, per decidere se ridare fiducia all’incerottata monarchia o svilire i diritti dinastici di Casa Savoia andando incontro al presunto progresso. L’intreccio prende effettivamente piede tramite la correlazione oggettiva tra habitat ed esseri umani. I paesaggi riflessivi agresti, ancestrali, sotto questo profilo colgono nel segno riverberando l’altalena degli stati d’animo dell’immusonita Marta sedotta dal soldato partito per il fronte.

Rimasta sola con un figlio da crescere. Costretta dalla retrograda famiglia a sposare un vedovo dal cipiglio del dominatore. Convinto che la giovane, refrattaria consorte debba stare – per l’appunto – al posto suo. Negandole la possibilità di lavorare o di dimostrare riconoscenza allo scaltro partito comunista. Nelle cui sezioni – dietro l’intrinseco do ut des destinato a sfociare nella violenza – impara a battere a macchina. La scoperta della cosiddetta diteggiatura cieca è raccontata con una maturità tecnica degna d’encomio sulla scorta dell’opportuno crescendo che consolida il processo d’identificazione a vantaggio del pubblico dai gusti semplici. L’amicizia invece sbocciata con il guru gay Lorenzo, impersonato da Marco Leonardi a conferma dell’implicito filo di congiunzione all’inobliabile Nuovo cinema Paradiso, tradisce l’imperizia di cadere nell’ovvietà dell’opera a tesi. Avvezza ad anteporre il tedio del pistolotto moralistico alla sagacia della critica di costume.

La componente dialettale all’acqua di rose, distante quindi anni luce dall’aguzzo dato antropologico ed etnografico fornito per mezzo del vernacolo catanese da La terra trema di Luchino Visconti, si va così ad amalgamare, in maniera assai programmatica, ai risaputi vincoli di suolo e di sangue, agli enfatici valori acustisti, affidati alla musica lirica che l’imbelle Lorenzo ascolta per riflettere in solitudine sull’inerzia imperante nel retrogrado luogo natìo, contemplando la catartica fuga dall’opprimente realtà ad appannaggio del melodramma, al sottosuolo dei gesti atavici. A braccetto con i ritmi inutilmente gravi della generica ricostruzione d’epoca. Lungi dall’ospitare quei momenti magici, frutto dell’estrosa mescolanza di stilemi in apparenza agli antipodi tra loro, necessari a trascendere appieno il déjà vu dell’ormai prevedibile conversione dei modesti fatti di vita in perentori ed edificanti moniti esistenziali. La pur apprezzabile prova recitativa della talentuosa Ludovica Martino nelle vesti della ragazza madre in odore di riscatto non basta a sopperire alla velleità di toccare tasti sensazionali, scuotendo unanimemente le coscienze, con la pigrizia dei nani sulle spalle dei giganti. L’accidia delle idee prese in prestito, anche se spacciate per universali, trascina dunque Il mio posto è qui nelle banalità scintillanti dell’infeconda propaganda. Aliena, sia in prassi sia in spirito, alla materia poetica custodita nella virtù di razionalizzare l’assurdo sigillando la costanza del celebre “sempre volli” coniugato al caparbio gentil sesso.

 

 

Massimiliano Serriello