L’ultima luna di Settembre: formazione, amicizia e genitorialità in Mongolia

L’esordio in cabina di regia dell’attore mongolo Amarsalkahn Baljinnyam con L’ultima luna di Settembre palesa l’ambizione d’imprimere alla geografia emozionale il valore d’un valido ed empatico antidoto contro l’ingombrante enfasi delle melense soap opere. Che spesso e volentieri tralignano pure sul grande schermo la profondità introspettiva in mera spettacolarizzazione dei buoni sentimenti.

Il ritorno a casa del protagonista, Tulga, prende le mosse da risaputi antesignani letterari e cinematografici. Al sempiterno rapporto tra habitat ed esseri umani spetta l’arduo compito di scongiurare il palpabile rischio di cadere nell’impasse dei nani sulle spalle dei giganti.

La necessità espressiva dei campi lunghi, impreziositi dall’uso intelligente e inusitato di certe soggettive, sembra in effetti garantire dapprincipio all’ambiziosa scrittura per immagini la fragranza dell’originalità. Il prosieguo della narrazione – con Tulga al capezzale del saggio contadino che lo ha cresciuto come fosse suo figlio, l’impegno di proseguirne il lavoro prima dell’ultima luna di settembre, ed ergo l’inizio del deleterio freddo stagionale, e l’apparente improntitudine dello scugnizzo autoctono Tuntuleei – muta invece segno rispetto all’ingegnoso ed evocativo incipit. Contraddistinto dall’arguta sequenza in cui gli abitanti della steppa cercano, innalzandosi impacciatamente in groppa a un cavallo, di sopperire ai problemi di connessione telefonica.

L’interazione tra commedia all’italiana (Posti in piedi in paradiso docet) ed eloquenti silenzi, sulla scorta dei capolavori incentrati sull’erudito lavoro di sottrazione, cede presto il passo ad alcune scenette malicomiche dal sapore retrò. Il rapporto padre-figlio stabilitosi step by step tra Tulga e Tuntuleei, la programmatica goffaggine stemperante di determinate figure di fianco, l’egemonia passeggera dei gesti sulle parole mettono in ombra la capacità del territorio eletto a location di riverberare le emblematiche tensioni caratteriali. Senza l’apporto decisivo della topofilia, intesa come amore per i luoghi ritratti, l’effigie desertica dell’Hentij e i riti bucoloci ivi connessi restano in superficie. Specie in confronto ad Alcarràs – l’ultimo raccolto di Carla Simón. Che trae linfa dall’aura contemplativa per cogliere in filigrana le reali speranze e delusioni legate ai frutti della terra.

La vena paesaggistica in quel di Mongolia si esaurisce, al contrario, nel fauto respiro della rappresentazione. Riscattata qua e là dall’efficacia antropologica ed etnologica dei quadretti conviviali. Con i campioni in erba di lotta sostenuti dagli adulti in mezzo all’allegria generale. Peccato che non basti ad andare oltre la melansaggine conclusiva. L’ultima luna di Settembre chiude infatti i battenti sulla scorta dei soprassalti d’affetto, di chiara ascendenza chapliana, lontani anni luce dell’etica della messa in scena in grado di scoprire attraverso la cura dei dettagli il regno dell’illusione che alberga nelle affinità elettive del senso d’appartenenza.

 

 

Massimiliano Serriello