Il talento del calabrone: un noir metropolitano made in Italy

L’aspirazione di realizzare un noir metropolitano, traendo partito dai numi tutelari d’oltreoceano avvezzi tanto all’aura contemplativa gradita al pubblico dal palato fine quanto alla dinamicità dell’azione richiesta dalle platee allergiche ai dispendi di fosforo, costituisce un bell’azzardo per il nostro cinema.

Il talento del calabrone, diretto dall’ambizioso Giacomo Cimini, cerca di vincere l’improba scommessa sulla scorta delle sagaci soluzioni tecniche attinte agli antesignani che convertono l’ammiccamento dell’esito figurativo fine a sé stesso nel risolutivo colpo d’ala di quello stilistico.

L’accidia delle idee prese in prestito permea però l’incipit con l’inquadratura di quinta dell’inquieto professore Carlo interpretato da Sergio Castellitto. Il lavoro di sottrazione impresso sia dall’esperto attore romano sul personaggio, deciso ad attanagliare una trasmissione radiofonica sino ad allora votata all’orgogliosa autonomia, sia da Cimini sul prologo offre pochi spunti d’interesse. Giacché pesca nell’ovvio invece di assorbire l’altrui ingegno mettendoci del proprio. L’immediato prosieguo, al contrario, riesce ad alzare il tiro. Grazie all’interessante dietro le quinte che contribuisce a cogliere alcune sfumature curiose ed eterogenee nel linguaggio quotidiano legato alla comunicazione via etere e al contrappunto del fuori onda. L’opportuna vivacità, comunque debitrice anch’essa d’illustri precedenti, da Talk Radio di Oliver Stone a La leggenda del re pescatore di Terry Gilliam, tradisce l’idea peregrina di garantire alla trama un fulgido respiro internazionale attraverso l’inidoneo ricalco. Mentre l’abile montaggio alternato che mette il vanesio dj Steph di fronte alla folle richiesta di Carlo, aspirante suicida con progetti terroristi, sollecita l’intelaiatura ritmica, grazie pure ai motivi d’insicurezza offerti dall’ininterrotto dialogo a distanza, la resa degli ambienti cade nelle secche dell’enfasi di maniera.

Lo skyline di Milano palesa un trattamento assai superficiale. Di conseguenza l’esame comportamentistico congiunto agli stilemi della geografia emozionale, con il mix d’interni ed esterni chiamato a corrispondere ad attese composite, anziché andare in profondità, va a caccia di grilli. Insieme al vano proposito di oltrepassare i limiti di qualsivoglia déjà-vu. L’impronta personale dell’avventizio autore resta così impalpabile. La scontata costruzione narrativa difetta del crescendo necessario ad appaiare nella malinconia dei risvolti psicologici lo spasso dell’intrigo e la nota formula del puzzle. Il margine d’enigma sulla ragione per cui Carlo costringa Steph ad anteporre la musica classica ai leitmotiv di moda procura un dislivello all’arco del racconto. Che adotta moduli espressivi inadatti a consentire alle schegge di umanità, scaturite dallo scontro dei caratteri coi nervi scoperti, d’incentivare l’esatta polemica morale e l’insita critica sociale. L’ingresso delle forze dell’ordine rientra nei canoni dei thriller poveri d’estro.

A dispetto dell’indubbia professionalità, Anna Foglietta veste i panni del tenente colonnello Rosa con un flebile vigore drammatico. La dinamica cromatica rinvenibile nel fatuo senso estetizzante della pur vigile fotografia di Maurizio Calvesi non dà coerenza alla storia. Composta, come da copione, di luci e ombre. La minaccia della strage, lo spettro dell’atroce detonatore, l’inesausta richiesta d’attenzione, gli interludi nel terreno dell’horror e l’analisi degli stati d’animo concedono qualche banalità di troppo. L’assenza delle doti introspettive dei capolavori che combinano alle note intimiste l’accorata foga dell’impianto corale trascina la scioltezza di certi, repentini, movimenti di macchina nell’atmosfera d’irrealtà delle serie tv. Lorenzo Richelmy – meno a suo agio nel ruolo del presentatore radiofonico, stretto d’assedio dal pazzo di turno e dalla poliziotta aliena ai convenevoli, rispetto all’irruento ma sensibile giocatore di rugby dell’intenso mélo sportivo Il terzo tempo – ne esce a testa bassa. Sovrastato dalla destrezza recitativa di Castellitto. Che, in ogni caso, non basta a compensare le incongruenze della tastiera dell’attualità chiamata in causa. Poco conforme agli standard autoctoni. Nonostante l’estremo sforzo profuso per inchiodare sul finale l’attenzione degli spettatori maggiormente avvertiti, svelando l’arcano al pari dei gialli che raggiungono lo zenith in zona Cesarini, Il talento del calabrone aggiunge poco o niente al piacere dello spettacolo adrenalinico ed echeggia con un incerto gusto teatraleggiante tranche de vie a corto di mistero.

 

 

Massimiliano Serriello