Kafka a Teheran: l’ambivalenza della società iraniana

Presentato al Festival di Cannes all’interno della sezione Un certain regard, Kafka a Teheran è un lungometraggio iraniano di genere drammatico che vede al timone di regia Ali Asgari, Alireza Khatami.

Si tratta di un lungometraggio che si dirama tra i vari ceti sociali, mettendo in scena le diverse vite, abitudini e possibilità di alcune persone che si mostrano sotto svariati punti di vista: religiosi, istituzionali, burocratici, lavorativi e chi più ne ha, più ne metta.

Ogni vignetta che compone la struttura narrativa del film cattura un ostacolo o un’avventura diversa, partendo dalla difficoltà nel trovare un nome congruo per un neonato, fino alla tanto discussa tematica delle molestie sul lavoro etc. Kafka a Teheran intende essere, dunque, lo specchio in fotogrammi di una società incoerente, piena di lacune, convinzioni e abusi. La situazione dell’Iran è antidemocratica e oscurantista e se ne parla veramente poco. La quotidianità che vivono molte persone non dovrebbe essere etichettata come normale. Il tutto viene affrontato attraverso nove riprese, divise, nelle quali i personaggi si ritrovano ad affrontare delle nature paradossali.

La violenza psicologica del regime è sottolineata alla perfezione dai registi Ali e Alireza (che hanno avuto anche qualche problema dopo aver mandato il film al già menzionato Festival di Cannes). Ad oggi l’Iran continua ad essere un Paese diviso tra riformismo e conservatorismo. Un paese giovane che non riesce a tollerare, però, le regole di vita imposte dalla Rivoluzione islamica del 1979. La vita a Teheran è quindi rappresentata negli episodi, ognuno dei quali definito dal nome del protagonista di turno. E in scena abbiamo, di volta in volta, sempre e solo un personaggio che racconta la propria storia. Da chi cerca lavoro ma non conosce abbastanza il Corano… a chi cerca lo cerca ma può ottenerlo solo stando a determinate condizioni.

 

 

Virginia Lepri