La mia fantastica vita da cane: l’animazione in chiave surreale ed esistenziale

Le facoltà oggettive, immaginifiche ed evocative del cinema permettono al pubblico innamorato degli amici a quattro zampe di vederne riflessi sul grande schermo la convivenza con l’essere umano, l’appartenenza, la partecipazione, la devozione offerta dalle creature pulciose attraverso ottiche composite e stimolanti.

Cinque anni fa il regista statunitense Todd Solondz, capofila degli autori indipendenti avvezzi ad anteporre il rigore d’intrecci poveri d’azioni ma carichi di significato ai segni d’ammicco delle operazioni commerciali, nel dramedy Wiener-Dog, attingendo ad Au hasard Balthazar di Robert Bresson per poi spostare le peripezie dell’asino col nome del re magio in mezzo alla crudezza dell’esistenza alle disavventure d’un bassotto vittima dell’inettitudine dei padroni, è riuscito a far riflettere soprattutto gli spettatori adulti. Fieri di afferrare il richiamo citazionistico per palati fini o presunti tali (non serve un occhio di lince per accorgersene) col filtro dell’ironia sardonica. Dell’antiretorica in grado di scandagliare l’ansia che attanaglia l’involuta classe borghese. Ostile ai codici di comunicazione e pacificazione degli animaletti domestici.

Il lavoro di sottrazione, il gelo dell’intelligenza, gli stilemi della commedia surreale, che trasporta le platee avvertite in un’atmosfera ignota ai seguaci dei buoni sentimenti necessari ad animare l’aria pulita in cui il buon fiuto del bassotto avrebbe potuto trovato l’approdo negatogli sia dal cinico insegnante Dave sia dall’anziana Nana, non sono piaciuti ai piccini. Che andranno al contrario in brodo di giuggiole di fronte al valore dell’immaginazione di presa immediata concepito dalla vecchia volpe Walt Becker nella commedia per famiglie Clifford – Il grande cane rosso. Quale sarà quindi l’accoglienza riservata da ultimo all’insolito film d’animazione La mia fantastica vita da cane? Chi storcerà il naso? Chi griderà al capolavoro? Chi si limiterà ad apprezzarne – anziché le mire artistiche – la spigliatezza del racconto, buona solo ed esclusivamente per trascorrere un’ora e mezzo nel buio della sala senza avvertire il peso della tediosità grazie all’input dell’intrattenimento disimpegnato? Di certo ad andare oltre i binari della mera evasione, avulsa al cortocircuito poetico della scoperta, dello stupore, delle possibilità cognitive e relazionali del miglior amico dell’uomo a prescindere dalla razza, comunque indicativa in parecchie altre faccende da non prendere mai sottogamba, provvede la tenuta stilistica dell’ambiziosa regista rumena Anca Damian. Bravissima nel previo mélo Moon Hotel Kabul ad agguantare per mezzo dell’intensa scrittura per immagini le pieghe contraddittorie del rapporto di un giornalista disilluso con la realtà sostanziale dei fatti. Da sentire in profondità, scoperchiare e comunicare con impegno ed entusiasmo. Al posto delle punture di spillo riservate al mito della speranza.

Il passaggio dal film con gli attori in carne ed ossa all’universo dell’animazione non è una passeggiata di salute. Anca accetta la sfida per aggiungere ai tratti distintivi dell’apologo esistenziale i tòpoi dell’affresco surreale. Agli antipodi, quindi, coi disegni animati per amore di semplicità. È un divertimento astratto il sincretismo d’intimistiche notazioni comico-sentimentali ed elementi ermetici? Oppure l’atto trasgressivo connesso all’egemonia della dimensione sensoriale sulla carineria della confezione convenzionale resta comunque un valido antidoto contro la temuta e invalidante incognita della noia di piombo? Il mutamento continuo dei disegni dispiegati indubbiamente in leggerezza – assumendo, via via, in maniera pressoché ininterrotta, salvo brevi interludi di quiete, i contorni dettati dal riverbero delle tenere reminiscenze, degli altalenanti stati d’animo, dei diversi modi d’agire e di reagire da parte della cagnolina protagonista Marona alle rinunce di proprietà, all’incostanza, alle ubbie, alle ansie di chi dovrebbe invece ricambiarne l’atto di assoluta fedeltà con incrollabile persuasione in merito all’indispensabile rapporto di reciproca fiducia – è una sorta di work in progress. Si sa, nel momento di coniugare la vita all’imperfetto, il nastro dell’esistenza si riavvolge. L’assidua voce fuori campo che ci accompagna nel viaggio all’indietro nel tempo, partendo dal principio, paga dazio alla vena programmatica delle modalità esplicative. E non ci sarebbe bisogno nulla da spiegare. Perché la congerie dei colori in acquarello, il dinamismo dell’azione a braccetto con l’aura contemplativa, le continue palingenesi, i trapassi di tono affidati alle efficaci nuance, agli sfondi, fedeli tanto al velo funebre che si stende nell’incipit quanto al senso morale ed epifanico dell’intero prosieguo, bastano e avanzano per trascendere i coefficienti spettacolari usati dai mestieranti al fine di mascherare la carenza d’idee. La regista rumena d’idee ne ha a iosa.

La lentezza dei consorzi privati, la frenesia di quelli collettivi, l’incidenza del territorio eletto a location e ad attante narrativo, l’ampio margine d’enigma, il bisogno del giornalista di capire il passato della collega morta con la quale passò una notte lontano dal suolo patrio all’insegna del sesso senza amore erano in Moon Hotel Kabul gli strumenti giusti per toccare le corde delle emozioni degli individui chiamati a comprendere ed esporre l’intesa stabilita da cuore e cervello. Anche se talvolta l’effigie degli spazi alienanti, il fattore complementare dei fantasmi dell’inconscio, per irradiare una luce di speranza nel panorama pessimistico della campagna rumena dove l’autocrate celebrante nega alla defunta la cerimonia funebre, il bisogno di stabilire una situazione di sospensione, rispetto all’implacabile cura degli elementi ambientali, mettono troppa carne al fuoco. L’inclinazione ad amalgamare l’attesa alla frenesia, il ragionamento allo sbigottimento, il pudore della complicità affettiva, mostrata quasi di sguincio, alla sfacciataggine quotidiana, al contrario in bell’evidenza prosegue pure con La mia fantastica vita da cane. Nonostante le perenni variazioni stabilite dall’inconscio, cadenzate dalla supercoscienza dell’indefessa voice-over, si avverte una misura maggiore nel combinare la scoperta dell’alterità. La diversità. Lo sviluppo della cucciola. Frutto di un incrocio. Ed ergo della contaminazione. Che alla cultura fa bene.

Ma all’ennesima dialettica tra concretezza e astrattezza meno. I carrelli da sinistra a destra, per seguire l’ordine naturale delle cose nell’esplorazione del mondo, le soggettive deformanti, la tentazione di espletare i bisogni fisiologici nel cilindro utilizzato per raccogliere le offerte dall’artista di strada che l’adotta, per poi abbandonarla, alcuni movimenti di macchina a schiaffo, abbinati ad alterazioni cromatiche senz’alcun dubbio curiose, palesano una maggior padronanza dello sdoppiamento tra realtà e fantasia. Che in Moon Hotel Kabul si abbina all’augurio formulato, col crescente intervento della suspense, dell’idonea inversione di tendenza rispetto alle dispute in redazione, al diktat dell’indifferenza e al thrill. Ovvero il brivido. Con La mia fantastica vita da cane i motivi di sfiducia sulle pieghe future degli eventi – confortati qua e là dalle premure del camionista alla Primo Carnera nei confronti di Marona a differenza dell’alterigia e della sventatezza dei padroni seguenti sino ad arrivare all’adorata Solange e alla nozione di come l’apparato muscolo-scheletrico giunga dopo lo spirito meritando una volta giunti al punto zero il degno ascolto alla stregua degli atleti coi muscoli – avvolge il sottosuolo dei gesti. Che persuadono più del profluvio di parole assurte a monologhi interiori. La concezione di felicità volta a svilire coi sogni la forza della consuetudine raggiunta dalla cagnolina, contenta di rincorrere la palla e vegliare sull’Uomo, trasmette un brivido. Questo tipo di pathos, con il rollio del sogno in perenne divenire, si adatta però meglio agli incubi che all’incanto di rivedere il film della propria vita. Clifford – Il grande cane rosso nella sua semplicità scalza La mia fantastica vita da cane. Impreziosendo il tran tran delle bestiole immerse nel nostro mondo col colpo d’ala dell’estro sincero. Che ne cattura gli input sensoriali. Alieni a fronzoli od orpelli surreali.

 

 

Massimiliano Serriello