Nomad – In cammino con Bruce Chatwin: un inno all’amicizia in giro per il mondo

Dopo qualche battuta d’arresto, che aveva spinto i superficiali cinefili del dopo-lavoro a salmodiare l’affrettato De profundis, l’intramontabile regista tedesco Werner Herzog nel documentario Nomad – In cammino con Bruce Chatwin torna a rifulgere le virtù della forza immaginifica. Frammista alla fragranza dell’autenticità dei sentimenti.

L’amicizia con lo scrittore britannico Chatwin, autore di libri di viaggio in grado di conferire notevole appeal alla scoperta dell’alterità, scongiura l’impasse dell’enfasi di maniera ed evoca la dimensione mitopoietica della geografia emozionale insieme all’intrinseca e toccante ricerca del tempo perduto. L’amarcord, a distanza di trentun anni dalla precoce dipartita dell’alacre narratore globetrotter, che con l’intenso ed esoterico romanzo Il viceré di Ouidah seppe ispirare al recettivo Herzog la realizzazione dell’applaudito film Cobra verde, contribuisce ad arricchire l’ampio deposito di appelli spirituali ed empiti avventurosi cari agli spettatori avvertiti. Ripercorrere fisicamente i luoghi della memoria, senza cercare meri supporti stilistici in aggiunta ai propri per guadagnarsi nuove simpatie ed esibire un’altera scioltezza espressiva, gli permette di anteporre il valore dell’aura contemplativa ai timbri programmatici dell’opera a tesi. Il passaggio dai campi lunghi ad alcuni inopinati zoom in avanti garantisce infatti all’effigie panteistica del villaggio di Avebury, nel Wiltshire, l’estro dei cortocircuiti elegiaci.

Nondimeno Herzog non si limita a contemplare in chiave lirica l’affascinante regione dove il compianto Bruce venne al mondo per poi riuscire ad assorbire interludi sagaci ed esami comportamentistici legati alla seduttività degli spazi riflessivi. Il ricorso ai movimenti di macchina da destra verso sinistra e allo slow-motion pagherebbe dazio al desiderio di porre in risalto la fase del raccoglimento collettivo, connesso alla ri-semantizzazione dell’ovvio senso d’immensità, se il gusto per l’aneddotica non fungesse da validissimo pungolo per sopperire ai compiaciuti cascami dell’arcinoto ermetismo. L’opportuna integrazione dell’ironia, ritenuta dallo stesso Chatwin l’antidoto migliore contro i rompicapi pseudo-intellettuali, scongiura il rischio di cadere nell’infeconda noia di piombo e alleggerisce l’andamento narrativo del prosieguo. La ruota del tempo trae linfa dalle riprese ravvicinate di Herzog che coglie i palpiti segreti dell’indimenticabile bradipo gigante scambiato per un brontosauro nell’età verde.

Ed è in questa incisiva sequenza ad emergere l’alchimia dei due esimi artisti capaci di sviscerare al meglio l’ordine naturale delle cose coniugando crudezza oggettiva ed epos letterario. Nel capitolo 3, Canti e Vie dei canti, invece, l’esplorazione dell’Australia sulla scorta della voice over pesca nell’ordinario. Ad alzare ancora il tiro provvede la bellezza del silenzio rinvenibile nei volti neolitici degli stakeholders locali. Il nomadismo esistenziale caldeggiato al di là di un certo schematismo – che continua ad affiorare a causa della tendenza a mettere troppa carne al fuoco, amalgamando lo studio antropologico ed etnologico a tavolino, con gli esperti in giacca e cravatta, all’inane colpo di gomito dei quadri d’epoca, raffiguranti gli indigeni – risuona nelle lande remote. L’omaggio nei confronti delle culture tribali estinte, che Bruce Chatwin volle avvicinare per sostenerne i riti liturgici, rappresenta una fulgida traccia sulla terra della memoria colma di angoscia e meraviglia. Mentre i raccordi di montaggio alternano le suggestioni paesaggistiche alle varie testimonianze, a scapito della maestria tecnica, costretta talvolta a cedere la ribalta agli elementi giudicanti ed esornativi, l’epilogo taglia il traguardo grazie al pudico testamento delle note crepuscolari. Rileggere i versi immortali sul patrimonio di conoscenze degli aborigeni diventa così il punto di convergenza tra l’arguta densità lessicale e l’emblematica gamma degli stati d’animo congiunti al sentiero decisivo. Promosso da vana cornice dell’azione al simbolo del mistero dell’anima e dello scintillio degli affetti sempiterni.

 

 

Massimiliano Serriello