Dirty difficult dangerous: il secondo lungometraggio del regista franco-libanese Wissam Charaf

Presentato alla settantanovesima edizione della Mostra del cinema di Venezia come film di apertura delle Giornate degli autori, Dirty difficult dangerous, del regista franco-libanese Wissam Charaf, si è poi aggiudicato il Premio Label Europa Cinemas come Miglior film europeo.

Ambientato tra Beirut e il confine tra il Libano e la Siria, il film racconta la storia d’amore tra Mehdia e Ahmed: etiope lei, siriano lui, sono due anime disperate in cerca di un futuro, di una vita migliore. I loro baci rubati tra le strade di Beirut sprigionano il bisogno di amore e di protezione.

Si proteggono l’un l’altra i due protagonisti: Mehdia lavora come domestica in una casa nella quale l’anziano signore è malato e aggressivo, mentre la moglie la tratta come una schiava. Ahmed, invece, è rimasto colpito da una bomba nel suo paese natale e ne porta i segni sul torace, fino a quando una strana malattia non inizia a prendere il sopravvento sul resto. Un po’ favola – ci sono anche rimembranze di Lo chiamavano Jeeg Robot – e molto dramma, Dirty difficult dangerous è il classico film d’autore che lascia alle immagini e alle espressioni dei protagonisti, più che ai dialoghi, il compito di narrare la sua storia. Una storia che parla di guerra, di discriminazione razziale, di povertà, di sotterfugi, di passaporti falsi e reni venduti, di solitudine e di dolori mai sepolti. Ma che scuote e salva il tutto permeandolo di amore, coraggio e speranza.

Il ritratto della vita di frontiera, con il rimbombo delle esplosioni in lontananza, le macchine abbandonate nel deserto e le baracche squassate dal vento, rende perfettamente l’idea di incertezza che si respira nei paesi confinanti con altri in cui la guerra imperversa. Dall’altro lato, la quotidianità tranquilla e quasi sonnecchiante di Beirut nasconde tuttavia la difficile convivenza tra libanesi e profughi siriani, cui è imposto il coprifuoco e che non hanno accesso a tutta una serie di impieghi. La macchina da presa si sofferma spesso sulle movenze dei protagonisti, sui canti di Mehdia, sul volto di Ahmed, rispettivamente la bravissima Clara Couturet e l’altrettanto valido seppur meno espressivo Ziad Jallad. La musica a tratti grave, a tratti malinconica, sembra rallentare ancora di più il ritmo della narrazione che langue.

Una sequenza ritrae i due amanti sdraiati sul giaciglio di fortuna che Ahmed ha realizzato nel bosco: a metà tra la Maja desnuda di Goya e l’Olympia di Manet, la giovane protagonista incarna fragilità e forza al tempo stesso. Cerca la salvezza per sé e per il suo compagno, trova il coraggio di fuggire dalla condizione di schiavitù né vuole piegarsi alle volontà della famiglia che, in Etiopia, la vorrebbe sposata ad un uomo molto più grande di lei. Affronta diverse tematiche Dirty difficult dangerous e lo fa con grazia e delicatezza pur mettendo troppa carne al fuoco: romantico, drammatico, surreale, con un pizzico di fantasy. Il ritmo decisamente flemmatico si sposa perfettamente con quanto narrato, ma in alcuni momenti si fa addirittura sonnolento. Suggestivo il finale, con il sorriso della giovane che inonda lo schermo di speranza. Speranza riposta su una grande nave che porterà lei e il suo amato verso una nuova vita.

 

 

Daria Castelfranchi