Il canto del pavone: macchina da presa puntata sullo Sri Lanka

Diretto da Sanjeewa Pushpakumara, Il canto del pavone è stato presentato al trentacinquesimo Tokyo International Film Festival, dove si è aggiudicato il premio Best Artistic Contribution.

Ispirato alle reali vicissitudini del regista, il film racconta l’epopea del giovane Amila che, in seguito alla morte dei genitori, si trasferisce a Colombo insieme ai suoi quattro fratelli: qui trova lavoro in un cantiere cinese dove si rifugia insieme ai bambini, dormendo su giacigli improvvisati; ma la piccola Inoka ha una malattia congenita al cuore e deve essere operata al più presto. L’unica soluzione sembrerebbe darsi agli scippi, ma un giorno incontra una donna che, nel bene e nel male, gli cambierà la vita e si ritroverà, suo malgrado, coinvolto in un traffico di neonati.

Affronta svariate tematiche il bellissimo film del regista cingalese: tematiche attuali, politiche, sociali. Pur mostrando fin da subito i risvolti più drammatici della realtà socio-economica dello Sri Lanka, Pushpakumara lo fa con estrema delicatezza, avvalendosi di una splendida fotografia e di attori che – se chiudiamo un occhio, anzi un orecchio, di fronte al doppiaggio – regalano performance intense e convincenti. Amila è una vittima della società e delle brutture della vita, ma non si dà per vinto e continua a lottare per salvare la sorella e garantirle l’intervento chirurgico di cui ha bisogno: è conscio del posto in cui lavora, del dolore delle madri che partoriscono per poi vedere i propri figli venduti a coppie benestanti provenienti da svariati paesi dell’Occidente.

In primis Svezia e Olanda che, come spiega la protagonista del film, splendidamente interpretata da Sabeetha Perera, prediligono le femmine. Ma Inoka è troppo importante per lui. L’attenzione ai dettagli e l’uso frequente dei primi piani forniscono un ritratto intimo dei personaggi e degli ambienti in cui vivono, soffrono e amano: la macchina da presa si insinua spesso tra i corridoi del cantiere deserto, dai cui piani alti ci si affaccia sull’intera città, per poi catturare la bellezza del giardino che circonda l’edificio in cui le giovani madri vengono pagate per il silenzio e per il peggiore tra i sacrifici da compiere. Momenti di estrema solitudine e disperazione si alternano ad altri di profonda comunione e commozione, perché, come spesso accade, è proprio la disperazione ad unire le anime. Anime afflitte ma tuttavia ancora vive e combattive, come Amila e la giovane Nadee, cui dà il volto la bravissima Dinara Punchihewa.

Ne Il canto del pavone ci sono tanta povertà e tanta corruzione. Ci sono pavimenti polverosi su cui dormono bambini piccoli e i rimorsi, i sensi di colpa e di giustizia, la bontà di certi esseri umani giunti sulla Terra per dare sollievo al prossimo. I rumori di sottofondo della città fanno a turno con le note gravi e drammatiche del pianoforte e accompagnano il protagonista lungo le sue vicissitudini. La brutalità degli adulti si scontra ben presto con l’innocenza dei bambini e l’immagine di Amila, seduto su una panchina insieme alla sorellina che definisce candidamente l’orfanotrofio “un posto brutto perché noi non siamo insieme”, è terribilmente struggente. Il canto del pavone è bello: estremamente doloroso, toccante, poetico. Racconta una realtà di cui nessuno parla ma che esiste, nascosta nei meandri delle società e dei paesi più poveri e disperati. Eppure alla fine prevale la speranza: un rituale, una litania, una lettera confortante e la consapevolezza che, tutto sommato, le cose stanno andando per il verso giusto.

 

 

Daria Castelfranchi