Stasera in tv Sentieri Selvaggi, il capolavoro di John Ford

Stasera in tv su Iris alle 21 Sentieri Selvaggi (The Searchers), un film western del 1956 diretto da John Ford. Universalmente riconosciuto, oggi, come uno dei capolavori di John Ford, se non uno dei massimi capolavori del genere western in assoluto, Sentieri selvaggi all’uscita nei cinema suscitò reazioni molto contrastanti ed ebbe fra i suoi detrattori proprio alcuni dei più affezionati fan del vecchio maestro (come Lindsay Anderson, Sam Peckinpah, o Jean-Luc Godard). Di certo, caratteristiche come l’estrema dilatazione temporale degli avvenimenti (con intervalli fra una scena e la seguente anche di svariati anni), la ricchezza della trama, la complessità psicologica del protagonista e l’ambiguità ideologica (che presta il fianco ad accuse di razzismo) lo rendono un film di non immediata comprensione e tale da richiedere visioni plurime per poter essere apprezzato pienamente in tutte le sue sfumature. Questo vale in particolare per la relazione tra Ethan e Martha. Oggi riconosciuta dai più, fu però rappresentata in maniera così sottile che pochi degli spettatori dell’epoca riuscirono a coglierla. Il film è basato sull’omonimo romanzo del 1954 di Alan Le May, che condusse personalmente ricerche su 64 casi di bambini rapiti dagli indiani. Si ritiene che il personaggio di Debbie sia ispirato a quello di Cynthia Ann Parker, una bambina di nove anni rapita dai Comanche che assaltarono la sua casa a Fort Parker nel Texas. Visse 24 anni con i Comanche, sposò un capo ed ebbe tre figli, uno dei quali fu il famoso capo Quanah Parker. Suo zio James W. Parker spese gran parte della sua vita e della sua fortuna per ritrovarla, come Ethan nel film. Venne infine liberata, contro la sua volontà, in un attacco del tutto simile a quello descritto nel film. Con John Wayne, Jeffrey Hunter, Vera Miles, Natalie Wood, Dorothy Jordan.

Trama
Finita la guerra di Secessione, Ethan torna a casa. Ritrova il fratello, la cognata, le loro due figlie Debbie e Lucy e il figlio adottivo Martin, di origine indiana. Un giorno arriva alla fattoria il reverendo Clayton con un gruppo di coloni e convince Ethan e Martin a unirsi a loro per dare la caccia agli indiani che razziano il bestiame. Ma mentre gli uomini sono via, i Comanches attaccano la fattoria, massacrano i genitori e rapiscono le due ragazze. Lucy è ritrovata morta; Ethan si mette alla ricerca di Debbie, insieme con Martin.

The Searchers è l’ultimo western classico e il primo western moderno. Della produzione classica recupera e sublima la dimensione mitologica della Frontiera, perfezionando il sistema di icone proprio del genere; ma al contempo ne annuncia la definitiva perdita d’innocenza innestandovi l’ambiguità, l’inquietudine, il mistero. È proprio l’elemento di diversità a fare del film un oggetto di culto per la generazione dei cineasti che esordiranno un decennio più tardi e rileggeranno il mito del West. The Searchers diventò il modello di un cinema tormentato, in cui si espone la figura dell’eroe a una rilettura lontana tanto dal manicheismo dei padri quanto dalla retorica del revisionismo.

John Ford girò The Searchers dopo un’astinenza dal western durata sei anni. Il suo ritorno nella Monument Valley è segnato dall’evocazione dei demoni meridiani della Frontiera. La morbida, suadente qualità pittorica del suo primo western a colori (She Wore a Yellow Ribbon ‒ I cavalieri del Nord-Ovest, 1949) si trasforma in una rappresentazione di inedita potenza figurativa in cui l’ombra e la luce abbacinante del sole si contendono l’inquadratura. Lo spazio incantato del deserto, luogo senza centro per eccellenza, e la casa, in cui il fulcro della vita sociale è rappresentato dalla tavola dei coloni, sono separate appena dal fragile confine di una soglia che il protagonista Ethan Edwards varca in apertura portando con sé i propri fantasmi. La tragedia che si svolgerà è l’ultimo atto della nascita di una nazione. Sullo sfondo di un paesaggio dichiaratamente metafisico, Ford attacca il racconto privilegiando le ellissi, i vuoti, i buchi neri. Le relazioni tra i personaggi, il loro passato, sono appena suggeriti e l’attesa di una esplicitazione, nel corso della storia, viene frustrata. Il massacro iniziale opera una brusca cesura che chiude il racconto ad altri possibili sviluppi (vedi il rapporto tra Ethan e la cognata Martha), costringendolo verso la dimensione epica della ricerca. Il fascino del film è determinato in primo luogo dalla complessità della sua struttura: la simmetria delle inquadrature di apertura e chiusura, i gesti che si ripetono (Ethan che alza tra le braccia la nipote), la lunga ricerca di Debbie organizzata drammaturgicamente in una serie di cerchi concentrici; l’ossessiva dinamica dell’allontanamento dalla casa e del ritorno a casa, riproposta di continuo, costituisce la declinazione di un archetipo proprio della cultura americana e che riappare, figurato, anche nel gioco del baseball. L’appartenenza al deserto, la condanna al nomadismo, la fiera attitudine guerriera, fanno di Ethan e Scar due antagonisti speculari destinati ugualmente a soccombere; con l’eliminazione dell’indiano, il western, come osserva Leslie Fiedler, viene meno in quanto il West si è trasformato in Est. A questo punto la funzione di personaggi come Ethan, latori di un furore che è anche incertezza di sé, appare esaurita: è cominciata la Storia, che è invece il tempo dei coloni, i costruttori di case e di città che beneficeranno della pacificazione forzata. La wilderness è stata definitivamente domata.

Girato tra il 25 Giugno e il 27 Agosto 1955 nella riserva navajo tra Utah e Arizona, in Colorado e nell’Alberta, The Searchers fu distribuito negli Stati Uniti nel maggio 1956 ottenendo una buona risposta commerciale. L’accoglienza critica fu invece controversa, contrassegnata da un sentimento di nostalgia per la semplicità e il nitore dei classici fordiani. La sceneggiatura e il disegno dei caratteri furono giudicati piuttosto confusi, la violenza eccessiva, la regia stanca e il film apparve troppo lungo. Tra i pochi italiani a difendere la qualità dell’opera ci fu Pietro Bianchi. Con le riedizioni (1961, 1966 e 1971) il giudizio cominciò a essere rivisto, soprattutto dalla critica più giovane che stava cominciando a rivalutare l’ultimo Ford. Eppure già nel maggio 1957, in testa alle classifiche discografiche USA, dominava un pezzo del rocker Buddy Holly che aveva per titolo That’ll Be the Day, ovvero la battuta preferita di Ethan Edwards. Un corto circuito culturale e generazionale che avrebbe dovuto far riflettere”.
( Leopoldo Santovincenzo, Enciclopedia del Cinema, 2004)

 

 

Luca Biscontini