Io capitano: Matteo Garrone e l’odissea dei flussi migratori

Più o meno l’adagio è sempre il medesimo: quando Matteo Garrone, regista di indubbio talento, non si cimenta con storie torbide e angoscianti, ma sconfina in territori che non gli sono congeniali, il risultato, purtroppo, è deludente.

Il nuovo film, Io capitano, presentato in concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia 2023, conferma questa sensazione, maturata dai tempi de Il racconto dei racconti e rafforzata dal mediocre Pinocchio.

La questione dei flussi migratori, decisiva, drammatica e complessa, destinata a ridisegnare il futuro del pianeta, viene declinata su un piano vagamente favolistico, per di più puntellato dall’immaginario stantio veicolato dai mezzi di comunicazione. È, soprattutto, dunque, un problema di sceneggiatura: Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri scandiscono una messa in scena prevedibilissima e in parte già vista (ci riferiamo al bel Mediterranea di Jonas Carpignano), che non aggiunge alcunché alla percezione che lo spettatore ha del fenomeno migratorio, né in termini meramente cognitivi, né sul piano del coinvolgimento emotivo. Già il prologo, in cui vediamo il giovane protagonista alle prese con la vita quotidiana in Senegal, sa di fasullo, laddove mostra una realtà filtrata da uno sguardo estetizzante che, anziché porre l’accento sulle miserabili condizioni di vita che spingono tanti individui a intraprendere un viaggio costellato di stenti, pericoli e talora morte, si intrattiene su particolari etnici o, tutt’al più, tratteggia un vago desiderio di migliorare le proprie condizioni.

Manca, insomma, la disperazione, il vero motore del movimento incessante dei flussi migratori. Si prosegue con l’inizio e lo svolgimento della grande odissea, ma è tutto un déjà vu. Dispiace dirlo, ma, davvero, ci si annoia: il primo spostamento in pullman; i passaporti ottenuti a pagamento; le polizie corrotte dei paesi di transito, che chiudono un occhio in cambio di un compenso; la traversata del deserto; i campi di detenzione in Libia; infine l’imbarco. E in quest’ultimo passaggio, poi, interviene la trovata di sostituire i cinici scafisti con il giovane protagonista, che, in modo davvero inverosimile (favolistico, per l’appunto), si ritrova a guidare la nave, piena di uomini, donne e bambini, per raggiungere le coste italiane. E lasciamo ai commentatori politici l’onere di valutare tale inversione di senso.

L’unica immaginetta che resta impressa in due ore di durata è un fugace inserto onirico in cui si vede il giovane senegalese tentare di salvare una donna non più giovane stramazzata al suolo per la fatica, durante la lunghissima marcia attraverso le dune roventi del Sahara. Garrone mutua l’iconografia chagalliana e, per qualche secondo, l’occhio del pubblico può riconoscere piuttosto nitidamente il volo surreale de La passeggiata. Se Io capitano, dunque, è solido sul piano tecnico (regia, fotografia, montaggio, scenografie e musiche), a essere fragile è l’idea di articolare un piano narrativo poco realistico per un fenomeno che richiede una lucidità impietosa, laddove non è suscettibile di essere riformulato con un immaginario che tenti di avvicinare lo spettatore attraverso una qualsivoglia forma di spettacolarizzazione. Un film che forse, visti i temi affrontati, ma non per il suo reale valore, potrebbe anche strappare qualche riconoscimento in fase di premiazione. Ma che, di certo, non lascerà alcuna traccia di sé.

 

 

Luca Biscontini