La viajante: un film di viaggio per cinenauti

La viajante è un film di viaggio fatto per piacere ai cosiddetti cinenauti. Gli amanti cioè della Settima arte che, pur senza mettere un piede fuori dal salotto di casa, se si tratta d’una visione domestica, o dalla sala di proiezione, nel caso del mercato primario di sbocco, viaggiano sulle ali dei film in grado di svelargli territori eletti a location colme d’incanto ed empatia.

Basti pensare al proiezionista di Splendor impersonato dal compianto Massimo Troisi, capace di descrivere per filo e per segno la topofilia delle principali città statunitensi senza mai lasciare il pidocchietto sito ad Arpino. L’attaccamento letterale, secondo l’etimologia della parola greca, a determinate località (da topos “luogo” e philia , “l’amore di”) stenta tuttavia ad appaiare il segno d’ammicco rinvenibile nel richiamo dell’avventura all’aura contemplativa ad appannaggio degli apologhi contemplativi ed ergo stranianti. Il tentativo di conciliare stilemi diametralmente opposti pone l’ambizioso regista iberico Miguel A. Mejias nella condizione di mostrare il fianco agli spettatori dai gusti semplici, e dalla battuta pronta, allergici ai dispendi di fosforo. Quelli convinti che la nozione d’autore consista nel prendere le distanze dalla spensierata superficialità dei colpi di gomito, cui antepongono la nobilitazione introspettiva della nevrosi cara ad Antonioni sin dai tempi di Deserto rosso, troveranno forse pure loro da ridire su dei tempi morti analoghi alle pause ascetiche poste in essere dal negletto collega rumeno Bogdan Dumitrescu in Dove al sole fa freddo.

Il sibilo del vento e i silenzi carichi di senso che accompagnano a ogni piè sospinto l’itinerario dell’alienata Angela, decisa nondimeno a invertire la rotta, aggiungono ben poco ad altre immersioni nella solitudine d’ascendenza bergmaniana più strutturate ed erudite. L’esplicita geografia emozionale, quantunque contribuisca ad andare oltre i limiti del cinema da camera privo degli approfondimenti dei dotti numi tutelari, grazie alla virtù del parco-giochi eletto ad attante narrativo che riverbera stati d’animo sennò ardui da cogliere, ha poca sostanza drammatica. Il taglio dello spazio, assumendo l’onere visionario dell’allegoria senza esibirne l’idonea forza significante, ricava decoro, però non vigore, dalle debite correzioni di fuoco concepite dall’accorta fotografia per orientare gli sguardi nei semitoni rivelatori. La fuga dal tran tran giornaliero prende così una piega piuttosto risaputa. La mancanza di suspense è compensata alla bell’e meglio dall’abbondanza di pathos. L’idea di filmare con una telecamera gli insetti riposti in apposti vasetti nel corso del tragitto innesca altresì uno spettacolo nello spettacolo che non sarebbe dispiaciuto affatto ai Maestri del Cinéma vérité. Rispetto comunque al caposcuola Edgar Morin, propenso ad arricchire la crudezza oggettiva già scandagliata dal Neorealismo per mezzo del calore umano emanato dalla manifesta camera partecipante, il tallone d’Achille risiede nel tralignare in monotonia lo stupore poetico mandato ad effetto da Spike Jonze nei momenti clou di Il ladro di orchidee.

Il ricorso a figure retoriche tradizionali tipo la metonimia, intesa come parte per il tutto dal pionieristico guru russo Sergej Michajlovič Ėjzenštejn nel classico La corazzata Potëmkin, riduce al lumicino l’autonomia del carattere d’ingegno creativo: le mani di Angela che scavano nell’arida argilla sanno di espediente trito e ritrito. Gli indugi, anziché trasportare le platee in un’atmosfera arcana che nobilita il processo d’identificazione con i risvolti ora sconsolati ora lieti della vicenda, rischiano di trasformare persino il pubblico più compito e restio alle sommosse beffarde in un affiliato della Gialappa’s Band deciso a deridere l’alterigia di una presunta opera di pensiero colpevole di prendersi troppo sul serio. L’immagine capovolta di Angela, al buio, che rimanda ad Apocalypse now, quando il capitano Benjamin L. Willard fissa il soffitto nella stanzetta di Saigon prima di dare in escandescenze, persuade maggiormente. Sebbene risulti spoglia dell’avvincente timbro romanzesco che reclama la scoperta dell’alterità. Le cose diverse, o sconosciute che dir si voglia, non diventano dunque mai davvero familiari. L’interazione, invece, tra i personaggi e l’habitat, catturato dalla necessità espressiva dei campi lunghi, recupera dei valori metaforici che avrebbero potuto garantire parecchio slancio ai motivi d’incertezza tipici del thriller. Al contrario l’implicito brivido, il thrill per l’appunto, è sacrificato per conferire un discutibile risalto ai tratti distintivi sia del referto sociologico sia dello spaccato intimistico.

Di conseguenza la modesta riuscita complessiva dell’esame comportamentistico, rapportato alla programmatica ed evidente cura dei particolari, innesca ulteriori lentezze. Ancora più superflue rispetto alle ascetiche pause dell’incipit. L’alternativa degli inopinati movimenti di macchina da destra a sinistra, per scorgere a passo di danza delle novità all’interno del rapporto di coppia degne di nota, delinea con garbo il bisogno di speranza nell’ambito di un ordine naturale minacciato dalla fugace egemonia degli angusti interni sui panteistici esterni. Lo scontato teorema, a corto della gamma di propensioni ed empiti di conoscenza alieni all’impasse di qualsivoglia schematismo, include al di sopra dell’ordinario solo ed esclusivamente l’uso sagace ed evocativo della musica intradiegetica. Le parole delle canzoni, infatti, vanno sotto pelle. Mentre i balli rintontiti di Angela nella mesta discoteca del finale tradiscono una resa scolastica. Per toccare il nocciolo della realtà, e aprire una breccia alla rinascita connessa ai legami di suolo e al significato della scoperta, occorreva una cifra stilistica che non suonasse falsa. L’accidia delle idee prese in prestito non ha nulla a che spartire con l’aroma della sincerità. L’impasto in La viajante di richiami, impliciti ed espliciti, nuoce perciò al road movie gremito di gesti misurati, profili di Venere, sagome chiaroscurali, trovate raccogliticce, banalità scintillanti ed echi continui. A conferma che furbizia e intelligenza viaggiano su binari inconciliabili. Con buona pace degli ingenui seguaci delle missioni impossibili. Pure l’ostinato Ethan Hunt, avvezzo alle arrampicate capogiro, si sarebbe arreso.

 

 

Massimiliano Serrriello