Il coraggio di Blanche: un’altra “guerra dichiarata” da Valérie Donzelli

Sono trascorsi oltre dodici anni dall’avvento nelle sale dell’intenso ed eccentrico mélo familiare La guerra è dichiarata.

L’avventizia tenuta stilistica dell’ambiziosa regista transalpina Valérie Donzelli, volta dapprincipio ad amalgamare timbri espressivi diametralmente opposti tra loro, traendo partito sia dalla verità nuda e cruda del documentario sia dalla sospensione dell’incredulità dei musical, ha mutato gradatamente segno rispetto al preziosismo formale d’inizio carriera.

Ben lungi dal garantire l’agognata fragranza dell’originalità. Archiviata quindi l’inane contaminazione di genere, aliena all’idoneo spessore contenutistico dei ritratti di donna d’ascendenza bergmaniana, Il coraggio di Blanche testimonia appieno la maturità acquisita dalla cineasta francese sul versante della contemplazione del reale. Frammista sempre, ma cum grano salis, ad alcuni cortocircuiti visionari carichi di significato. Come quelli concernenti il passato, sulla pista da ballo, in automobile, con il paesaggio riflessivo che sfreccia sullo sfondo dell’inquadratura rigorosamente di profilo, della professoressa Blanche Renard. Decisa a divorziare dall’ossessionante coniuge Greg Lamoureux che, dietro la facciata del classico perbenismo borghese, cela l’insopportabile mania del controllo. L’analessi, scandita altresì dall’intristita voice over dell’insegnante di liceo mentre rievoca l’ordine cronologico degli eventi, dalle frecce di Cupido scoccate nel rigoglio dell’età verde alla gioia della maternità sino ad arrivare all’inatteso spirito di malvagità emerso palmo a palmo, convoglia nell’amara inversione di tendenza l’aguzza analisi degli stati d’animo ad appannaggio dei ritrattisti sobri, avversi quindi all’enfasi di maniera, e l’aurora d’incertezza sentimentale convertita in suspense. Anche se certe delucidazioni narrative risultano piuttosto programmatiche confronto alla calibrata resa degli effetti raggiunta dall’abile scrittura per immagini, Valérie Donzelli riesce lo stesso a far combaciare i valori figurativi con quelli introspettivi.

L’inopportuno trasferimento dalla natìa Normandia a Caen, la città di Guglielmo il conquistatore, dove l’illusorio senso di stabilità comincia inesorabilmente a vacillare, le irragionevoli pretese di perfezione del marito, per cui ogni spesa deve essere giustificata, la carezzevole complicità femminile della sorella gemella in grado di vincere pure l’ostacolo della distanza fisica, la foresta promossa ad allegoria del bisogno di respirare a pieni polmoni aria pulita ed eludere i miasmi dei comportamenti compulsivi di Greg, pervaso da dubbi paranoici, traggono linfa dalla virtù di scrivere con la luce dell’avveduta fotografia. Che consente di sfumare nel chiaroscuro tanto i mesti presagi quanto l’atroce caos, dovuto all’insalubre rimuginio maschile, e suggerire la radiosa via di scampo dal tetro predone narcisistico. Impersonato con lodevole perizia recitativa da Melvil Poupaud. A conferma del cristallino talento nel combinare al meglio accenti stranianti e umanisssimi semitoni. Già sugli scudi in Un bel mattino di Mia Hansen-Løve nel ruolo dell’incerto Clement. La sceneggiatura, ricavata dal romanzo L’amore e le foreste di Éric Reinhardt e redatta a quattro mani insieme alla perspicace ed eclettica Audrey Diwan, autrice a tutto tondo del solido film d’impegno civile La scelta di Anne – L’Événement, rifugge dai meri ricami intimisti allo scopo di cogliere con particolare acume la crudezza oggettiva della dipendenza affettiva congiunta all’ansia di affrancamento.

Mentre i movimenti di macchina da destra a sinistra sanciscono da copione il termine dell’idillio, preannunciando in filigrana l’oscuro cambiamento di rotta, il serrato confronto della coppia che scoppia tradisce di quando in quando l’impasse dell’opera di giustapposizione. Che accosta alle debite variazioni sul tema, già ampiamente sfruttato, le tessere di una memoria troppo legata alla canonica morale della favola per riservare autentiche sorprese. L’epilogo però riscatta qualunque sensazione d’infecondo déjà vu e i limiti del thriller spurio con l’arpeggio essenziale ed evocativo delle emozioni sottese in zona Cesarini. Merita un supplemento d’applausi in tal senso la prova maiuscola di Virginie Efira nei panni, oltreché dell’affiatata gemella, della rediviva docente. Che, senza montare in cattedra, impartisce all’ex partner petulante la lectio magistralis della sacrosanta indifferenza. La guerra dichiarata dal patrocinatore legale in gonnella implica infatti il sano disincanto dinanzi all’extrema ratio dell’empia manipolazione. Perciò Il coraggio di Blanche rifiuta nel finale ogni ghirigoro. Riassumendo nel gioco fisionomico della prodiga attrice la densa dinamica interiore che passa, sulla scorta dell’ardimento muliebre, dal solco della luttuosa disperazione al logico avamposto dell’equa liberazione.

 

 

Massimiliano Serriello