Shadows: l’input della contaminazione dei generi

A cinque anni di distanza dal film d’esordio Arianna, contraddistinto dagli stilemi mélo e dal margine d’enigma delle parabole mistery, il regista romano Carlo Lavagna ricorre in maniera ancor più decisa all’incisiva ma rischiosa contaminazione dei generi. Riuscire infatti ad appaiare i tratti distintivi degli apologhi post-apocalittici con i tòpoi dei romanzi di formazione non è certo una passeggiata di salute.

La sua opera seconda, Shadows, finita direttamente on demand e simile sotto alcuni aspetti all’horror spurio Buio di Emanuela Rossi, ne evidenzia l’assoluta predilezione tanto per l’interazione tra interni claustrofobici ed esterni panteisti, scandagliati dalle inquadrature dal basso all’alto sulla falsariga di Alejandro González Iñárritu in Revenant – Redivivo, quanto per l’atmosfera arcana degli affreschi introspettivi.

Da una parte affiora la natura scarna dell’antiretorica, che cadenza il tran tran giornaliero delle due sorelle adolescenti Alma e Alex sopravvissute insieme all’autocrate madre a un’atroce calamità ambientale; dall’altra prendono piede le componenti manieristiche dei prevedibili coming-of-age movies. A passare rapidamente in cavalleria, tuttavia, al posto dell’opportuna compostezza del lavoro di sottrazione, in grado di trasmettere curiosità sul dipanarsi degli eventi, sono i superflui luoghi comuni congiunti all’approdo all’età adulta. L’efficace apprensione creata step by step dall’estrinseca aura disturbante e dai profondi motivi d’incertezza rinvenibili nell’insita scoperta dell’alterità, costituita dal bosco limitrofo, foriero d’incanti precari ed estremi disincanti, trae notevole linfa dall’uso espressionistico della musica extradiegetica. L’alternarsi della fugace complicità femminile, risolta talora persino in fervida poesia anziché restare l’infecondo emblema dell’ennesimo quadretto familiare, e dei timbri antropologici ed etnologici, ad appannaggio del darwinismo sociale, va spesso sotto pelle.

Senza estrarre conigli dal cilindro, al pari degli autori capaci di conferire al brivido, o thril che dir si voglia, l’impareggiabile valore aggiunto della forza immaginifica, Lavagna mantiene appieno le promesse fatte nell’incipit. L’albergo sperduto adibito ad abitazione, dove la freddezza dell’habitat alternativo prevale sul bisogno di calore umano, soppiantato dallo studio delle piante e dall’ammaestramento alla caccia, diviene così teatro di confidenze a fior di labbra ed empiti d’inarrestabile stizza. Anche se l’aspirazione di mettere una carezza in un pugno, sull’esempio sia dell’omonimo brano di Adriano Celentano sia dell’alacre cinema autoctono degli anni Settanta, avvezzo ad amalgamare l’immediatezza espressiva ai colpi d’ala del carattere d’ingegno creativo, lascia segni troppo brevi per unire al meglio cuore e cervello, Shadows non stecca mai contro l’impasse della velleità. L’andamento riflessivo della trama cede spazio al momento giusto ad alcuni sagaci movimenti di macchina al chiuso che colgono di sorpresa gli spettatori veicolandone l’attenzione senza subire deleterie battute d’arresto. Il persistere del clima angoscioso, sebbene celi la necessità di accrescere l’arcinoto fascino dell’irrazionale per sopperire all’ovvietà della crudezza oggettiva, spinge l’intero cast a impegnarsi allo spasimo.

Per impreziosire il climax ivi connesso con l’ammaliante psicotecnica. Padroneggiata soprattutto dall’esperta attrice britannica Saskia Reeves che, nel ruolo della mamma oppressa sino al delirio dalla presunta deminutio capitis e dagli immancabili demoni nascosti, domina la maggior parte dei primi piani sulla scorta dell’incupita destrezza mimica. Le tiene testa la vispa Mia Threapleton, figlia della celebre Kate Winslet, nelle vesti dell’introversa ed eterea Alma. Prontissima a mutare segno, una volta scattata la molla del rigetto. L’elemento figurativo – garantito dall’abile fotografia, con i colori plumbei chiamati a riverberare la cupezza quotidiana, e dall’avvertita scenografia – riempie l’occhio. Ad assicurare l’agognato salto di qualità dovrebbe provvedere la cifra stilistica di Lavagna. Degna indubbiamente di lode nell’assorbire la lezione dei suoi numi tutelari. Meno nell’abbinare l’insistito pathos formale al nucleo concettuale ideato dallo script redatto a otto mani da Fabio Mollo, Damiano Bruè, Tiziana Triana e Vanessa Picciarelli. Ciononostante Shadows taglia lo stesso il traguardo dell’intelligenza: l’egemonia dello spirito sulla materia, di ciò che non si vede, in buona sostanza, su ciò che si vede, lungi dal voler toccare la vette dell’iperbole, serpeggia dall’inizio alla fine. E le ombre in perenne agguato accompagnano lo spettacolo di spaventi, meraviglie, repulsione ed empatia.

 

 

Massimiliano Serriello