Disponibile su RaiPlay L’ultimo metrò di François Truffaut

Disponibile su RaiPlay L’ultimo metrò (Le dernier métro), un film del 1980 diretto da François Truffaut. Il film costituisce il secondo capitolo della filmografia del regista dedicata al tema dello spettacolo. Il primo, Effetto notte, riguardava il cinema; il terzo, che doveva riguardare il music-hall, non fu mai realizzato. Parigi è occupata dalle truppe naziste. L’ultimo metrò è l’ultima corsa prima del coprifuoco, il divieto di circolare per le strade notturne dopo le 23.00, ultima possibilità di ritornare a casa per gli amanti del cinema e del teatro. In quei difficili giorni di angoscia e di guerra, per evadere dalla dolorosa realtà e anche per la necessità di riscaldarsi, i parigini correvano numerosi ad affollare cinema e teatri. Il film fu proiettato per la prima volta il 17 settembre 1980. L’ultimo metrò ebbe successo di pubblico e di critica, vincendo dieci César ed ottenendo una nomination all’Oscar. Con Catherine Deneuve, Gérard Depardieu, Heinz Bennent, Jean Poiret.

Trama
Durante l’occupazione nazista di Parigi, Marion Steiner – che gestisce il teatro Montmartre – cerca di non interrompere le repliche degli spettacoli e di continuare l’opera di Lucas, il marito ebreo, costretto a rimanere nascosto. Arriva un nuovo attore, Bernard Granger, che contribuisce a rilanciare con successo l’immagine del teatro ma finisce per innamorarsi di Marion.

François Truffaut ha un obiettivo da realizzare con l’arrivo de L’ultimo metrò nella stazione del suo mondo. Non è il suo miglior film, ma è certamente uno dei più solidi, robusti, compatti. A differenza di molte opere precedenti, basate sul rischio, sul gusto, sui sentimenti personali, questo è ecumenicamente rivolto a tutti, indistintamente. Non corre il pericolo di risultare ostico come Adele H. o troppo inquieto La camera verde (in realtà due sfavillanti capolavori), per un motivo semplice: è impregnato di un classicismo filologicamente perfetto.

A suo modo, è un film fuori dal tempo. Non può non piacere perché è costruito talmente bene, con una grazia così raffinata da risultare esemplare. Come in Effetto notte (non) si rivelava l’arcano cinematografico, qui l’azione si sposta sul teatro, che probabilmente è ancora più subdolo del mezzo con la cinepresa, perché non c’è montaggio che tenga, il momento viene immortalato senza via di scampo. E proprio a voler sottolineare la sua adesione al tessuto “finto”, alla finzione scenica, la parte migliore del film è proprio la messinscena dell’opera teatrale, faccia della medaglia esistenziale che presenta da un lato il vero (il pubblico, il resto del mondo, il “fuori” del teatro) e, appunto, dall’altra il falso (che però è un falso realistico, perché vita e scena si mischiano, le componenti essenziali del loro percorso si incontrano, si scontrano, si cercano, si trovano).

L’impianto teatraleggiante (ma non teatrale) ha l’esigenza di destrutturare lo specifico filmico veicolando tale scelta alla rivelazione dell’indagine sentimentale che Truffaut compie in ogni suo film. Ecco allora la rappresentazione del ruolo di Catherine Deneuve, dualisticamente sospesa tra l’obbligo di dover dimostrare la propria bravura sia sul palcoscenico che nella gestione dell’esercizio (il teatro è suo) e la necessità interiore di ricongiungersi con suo marito, regista ebreo, nascostosi nei sotterranei del teatro, quasi a voler marcare il cordone ombelicale che non riesce, non sa, non deve spezzarsi tra l’uomo e il mezzo. Ecco l’ambiguità sorniona che avvolge il personaggio di Gèrard Depardieu, sbruffonamente disegnato come un donnaiolo, attore rigoroso, amante silenzioso. Catherine-Marion e Gèrard-Bernard regnano sovrani sul teatro che a sua volta s’impone su di loro e sul mondo.

L’ultimo metrò è anche una delle pellicole più politicamente consapevoli di Truffaut. Afferma la sua posizione di neutralità di fronte al divenire politico: “tutto è politica”, fa dire al personaggio verso cui indirizza il suo disprezzo, proprio per evidenziare la sua estraneità a tale concezione. Il suo distacco dalla politica è proverbiale: non è che non gli interessi, e che non la capisce, non riesce a entrare nei meccanismi subdoli e complessi del politichese, o forse addirittura non la vuole capire. E infatti non giudica, ma constata. È indubbia la sua avversità al regime nazista, ovviamente. Al contempo dichiara la propria inadeguatezza nell’affrontare una qualche metafora politica all’interno del suo mondo “irreale”. E probabilmente è stato meglio così. Sarebbe stato innaturale. Non era nelle sue corde (gli unici atti politici che si è sentito di esporre sono stati la critica alla gestione della Cineteca parigina in Baci rubati e il discorso del maestro ne Gli anni in tasca: ovvero, le cose che gli stavano a cuore, cinema e bambini). La riprova: il finale. Beffardo, fiducioso, limpido.

 

 

Luca Biscontini