C’era una volta in Bhutan: un apologo tragicomico tra fiaba e dileggio

Realizzare un apologo sui valori ereditati dalla tradizione, scossi dal nuovo che avanza, costituito dall’avvento sia pure tardivo di Internet e dall’egemonia del sistema democratico sulla vetusta monarchia, richiede una tenuta stilistica conforme all’avveduto ed estroso cinema di pensiero. Incline ad anteporre ai fiabeschi segni d’ammicco delle opere avventizie, destinate a veleggiare in superficie, la compiutezza introspettiva degli affreschi capaci di trascendere l’ovvia miscela di apparenze ed esteriorità cara al pubblico dai gusti semplici.

La molla dell’ispirazione scattata nel debutto in cabina di regìa dell’eclettico Pawo Choyning Dorji dirigendo l’intenso mélo antropologico ed etnografico Lunana – Il villaggio alla fine del mondo s’innesca ancora con C’era una volta in Bhutan?

La scelta di mandare ad effetto una scrittura per immagini d’alta scuola per approfondire l’impatto dell’antica civiltà bucolica sita nello statarello himalayano dell’Asia con l’ennesimo boom tecnologico fa pendere dapprincipio la bilancia dalla parte dell’indagine sociale pienamente all’attivo. Giacché, a differenza del film d’esordio, più legato sia ai timbri panteisti sia agli stilemi classici del racconto di formazione, la virtù di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente aggiunge un tassello meritevole d’encomio alla forza significante della geografia emozionale. Lo testimonia la necessità espressiva d’ascendenza fordiana dell’alacre campo lungo che scova il buffo ma al contempo prodigo monaco protagonista, braccio destro dell’immusonito Lama locale, con una bombola del gas sulle spalle in mezzo all’ordine naturale delle cose. I chiari rimandi a Un uomo tranquillo e Don Camillo impreziosiscono così, se non altro agli occhi dei cinefili di provata fede, la cornice debitamente spiritosa. Avvezza ad affrancare il mito dell’attaccamento alla terra dalle secche dell’enfasi di maniera.

Con le elezioni alle porte, dopo l’abdicazione del vecchio sovrano, il surplus degli elementi tipici della pungente commedia di costume immette incisive punture di spillo nell’accorto governo degli spazi. Tanto all’aperto, lungo gli immensi pascoli e le emblematiche montagne, quanto al chiuso. Dove i contadini, favorevoli al presunto progresso, scoprono guardando tutti insieme in televisione la sicumera del moderno James Bond impersonato da Daniel Craig in Quantom of solace. Le infinite file al grezzo seggio elettorale, con i colori associati alla modernizzazione e alla conservazione, offrono curiose parentesi facete. Aliene ciononostante all’umorismo paradossale che conferisce alla legge dell’imprevisto momenti di fulgida destrezza satirica. Assai più adatti, rispetto al solito richiamo dell’avventura, a oliare l’ingranaggio narrativo convertendo le apparenti macchiette in solide allegorie. Colte fuori d’ogni infeconda retorica. Invece, mentre i paesaggi riflessivi, percorsi immancabilmente dalle nuvole e dal vento che pare soffiare in sintonia col turbinio degli stati d’animo, colgono nel segno, dimostrando di stare davvero a cuore a Pawo Choyning Dorji, estraneo ai meri sfondi cartolineschi, il folclore del piccolo mondo rurale a confronto con la modernizzazione paga dazio alla vana ridondanza delle favole congiunte alla contemplazione del reale.

La rievocazione del 2006, anno mirabilis o orribilis a seconda dei punti di vista agli antipodi, passa quindi dalla deformazione caricaturale ai colpi di gomito. Senza garantire al kolossal sui generis dai piedi in ogni caso d’argilla l’opportuno respiro e lo spasso richiesto pure dalle platee elitarie. Le armi da fuoco ghermite dal maestro spirituale, l’americano in trasferta costretto a esibire i nervi scoperti, anziché esercitare l’ascendente vigoroso dell’avvertito Occidente, l’irrisione alla fin fine risaputa, il trapasso step by step di tono, con l’aspetto nostalgico ed elegiaco sugli scudi, a discapito dei gustosi siparietti stralunati, i versanti in ombra, accostati ad ampollosi tagli di luce, pongono in evidenza le note meno psicologicamente azzeccate e coerenti dell’assunto. L’apprezzabile composizione figurativa, contraddistinta nell’epilogo dalla curva perfetta dell’arcobaleno, non basta a sopperire alla penuria di linearità della struttura diegetica. Che, pur attraverso l’indubbia padronanza della macchina da presa, dispiega in modo disuguale la magia dei suoni, i sovrani silenzi, i fitti dialoghi, il brio della farsa intelligente, lo sforzo corale degli interpreti e l’afflato lirico conclusivo. C’era una volta in Bhutan, perciò, a furia di mettere troppa carne al fuoco, traligna l’ambita poesia in stucchevole, nonché discordante, sensibilismo.

 

 

Massimiliano Serriello