Confidenza: Daniele Luchetti e Domenico Starnone parte 3

Giunto alla terza trasposizione cinematografica dei libri dell’applaudito romanziere partenopeo Domenico Starnone, dopo La scuola: Ex cattedra-Fuori registro-Sottobanco-Solo se interrogato, tradotto sul grande schermo quasi trenta primavere or sono, e il recente Lacci, sulla scorta di una specie d’affinità elettiva o presunta tale, l’ambizioso regista capitolino Daniele Luchetti sembra deciso con Confidenza ad anteporre alla scontatezza delle opere a tesi il labirinto d’ipotesi stimolanti ad appannaggio dei film gialli.

La scrittura per immagini posta in essere allo scopo di tener vivo l’interesse di un’ampia fascia di spettatori, attratti ora dal richiamo giocondo dell’intrigo ora dal puzzle introspettivo da riempire step by step di pari passo con l’angoscioso stato d’attesa della suspense, palesa però pure la velleità di combinare stilemi diametralmente opposti tra loro.

Il pressoché subitaneo salto indietro negli anni Ottanta, quando il giovane e appassionato professore di lettere Pietro Vella grazie alla cosiddetta pedagogia dell’affetto cattura appieno l’attenzione di studenti e studentesse, in particolare l’indomabile Teresa Quadraro, futura titolare della cattedra di matematica presso il prestigioso Massachusetts Institute of Technology di Boston, tende ad accrescere gli spazi dell’immaginazione per mezzo del chiaro segno d’ammicco riscontrabile nelle molteplici tecniche di straniamento. Viceversa il nodo dell’intera vicenda, che verte sul tema assai ampio ed eterogeneo dell’amore, della paura, del coraggio e dell’esplicito pluralismo dei punti di vista d’ascendenza pirandelliana, è affidato all’austero lavoro di sottrazione. Non solo ed esclusivamente per quanto concerne la confidenza del titolo. Stormita sottovoce dalla coppia formatasi distante dai banchi del liceo. All’epoca dell’Università. Frequentata su sprone del divertito docente divenuto focoso amante. La virtù di togliere al visibile ed ergo aggiungere all’invisibile, in teoria senza ricorrere a pleonastici fronzoli od orpelli vari, permea pure ulteriori sequenze chiave. Ivi compresa quella che nel decennio successivo omette di mostrare in toto il letto nuziale dell’insegnante impegnato nella presentazione fuori Roma del rivoluzionario testo didattico cui deve la fama.

Vittoria Puccini nelle vesti della moglie Nadia che paga dazio sia all’incapacità di sfruttare la sete di sapere sul piano razionale sia alle impietose rughe d’espressione, fornisce una prova decisamente programmatica. In linea con l’ennesima, ampollosa rivisitazione di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Già fulgido motivo d’ispirazione in chiave nostalgica del ben più avvertito ed estroso Sergio Leone. Lo stesso discorso vale per lo strabordante utilizzo della pur suggestiva colonna sonora. L’impressione che i dialoghi illustrino un’idea agli antipodi rispetto a quella esposta dalla traboccante musica extradiegetica è compensata alla bell’e meglio dalla scena dove Federica Rossellini nel ruolo di Teresa sciorina un’emblematica spontaneità di tratto eseguendo al pianoforte una canzone francese dal fascino retrò. Gli strascichi horror, l’effetto Vertigo dei compiaciuti zoom, le arcinote finestre aperte sullo skyline dell’arida periferia, l’effigie degli ingannevoli quartieri alti della Capitale, l’interazione tra realtà e incubi a occhi aperti non rapiscono nella commozione né aggiungono un tassello sostanziale al sentimento d’insicurezza tipico dei thriller psicologici. Il timore di ritrovarsi sbalzato dal piedistallo in zona Cesarini, dinanzi alle maggiori cariche governative del Bel Paese, richiama alla mente nobili memorie ed echi piuttosto discordanti.

La scelta, quantunque consapevole, di dare un colpo al cerchio della ridondanza romantica e l’altro alla botte dell’asciuttezza ermetica provoca scollature palesi nell’ambito d’un composito affresco che stenta a scorgere l’opportuno elemento unificante. Dare spago alla voice over dell’incipit, agli eloquenti silenzi, alle modalità esplicative esibite dal cicaleggio degli pseudo intellettuali, ai volti illuminati in gioventù, attorniati spesso dalla penombra in vecchiaia, equivale a tagliare con l’accetta del mero mestierante l’apposita gamma di sfumature preferendo accenti dapprincipio caldi e in seguito conformi all’algida predica sulla maschera indossata in società. Aliena ad autentici spunti di riflessione in merito ai trapassi di tono con il cuore in gola. I calcoli dicono perciò la verità ed ergo la letteratura risulta bugiarda? Al gioco fisionomico del gigionesco Elio Germano, nei panni dell’incanutito Pietro, si vanno ad appaiare i tòpoi di una struttura narrativa a mosaico sin troppo collaudata. Non esente, per di più, da qualche eccessiva sbavatura patetica. Confidenza, in tal modo, anziché tagliare il traguardo concesso al fatidico carattere d’ingegno creativo, agognata meta di chi ci mette del suo perfino nello sdrucciolevole doppio binario, riesuma i capisaldi dell’indagine comportamentistica sul solito versante pubblico e privato.

 

 

Massimiliano Serriello