Animali selvatici: la contemplazione del reale di Mungiu

L’acclamato ed esperto regista rumeno Cristian Mungiu incentra la propria cifra stilistica sulla contemplazione del reale, in antitesi coi coefficienti spettacolari cari al pubblico dai gusti semplici, servendosi, per approfondirla, soprattutto dei virtuosi piani-sequenza. Scherniti dagli spettatori allergici ai dispendi di fosforo. Applauditi, viceversa, dalle platee elitarie che venerano il cinema d’autore con la A maiuscola.

Scevro dai plagi camuffati da omaggi di chi trae fin troppo partito dai propri numi tutelari per sopperire al labile carattere d’ingegno creativo. Lo status d’autorialità di Mungiu non muta segno nella sua ultima fatica, Animali selvatici, imperniata sugli effetti collaterali dei timbri antropologici ed etnologici connessi ai vincoli di sangue e di suolo.

Nella vicenda del villaggio della Transilvania, dove convivono tra vari screzi gli usi e i costumi di comunità agli antipodi tra loro, come quella rumena, ungherese, tedesca, quanta farina del suo sacco ci mette Mungiu per confermare l’elezione ad autore tout court? In apparenza parecchia, riuscendo a unire il timbro sociologico all’estro introspettivo. A ben guardare, invece, assai poca. Giacché emergono, seppur in filigrana, i debiti, per così dire, nei confronti del compianto Sam Peckinpah in Cane di paglia e dell’ispirato Thomas Vinterberg nell’amaro apologo sociale ed esistenziale Il sospetto. L’atmosfera d’intolleranza che si respira step by step nel villaggio fedele, nel bene e nel male, ai valori ereditati dalla tradizione, l’ostilità tanto strisciante quanto crescente di un’ampia frangia di persone riunitesi in chiesa, sotto l’insegna del Cristo, non per accogliere, bensì per scacciare le persone sospettate, tradiscono senz’alcun dubbio l’accidia delle idee prese in prestito. A dispetto della sbandierata autonomia d’uno stile che a prima vista sembra concentrato solo ed esclusivamente sulla realtà da catturare con la macchina da presa. Dapprincipio per mezzo del lavoro di sottrazione. Al fine di tenere sui carboni ardenti i seguaci dei thriller psicologici.

In seguito sulla scorta dei compiaciuti long take di cui uno in particolare pone l’accento in merito alle discordie emerse tra gente di scarsa fede ed esplosiva diffidenza. Il ritorno a casa del laconico Matthias, intento ad anteporre in famiglia la vana morale venatoria alle ragioni del cuore, l’acredine della giovane consorte, l’accoglienza riservata dall’amante Tsila, impiegata nel panificio locale, agli operai provenienti dallo Sri Lanka percorrono più il filone dei film d’impegno civile che quello delle opere d’essai. L’uso del pedinamento d’ascendenza zavattiniana, oramai in balia del deleterio senso di déjà vu, non basta a cogliere il peso impalpabile ed emblematico dei gesti al di là del profluvio di parole pungolate dall’accesa babele linguistica. La descrizione delle fabbriche, quella di macellazione in Germania, e il regno del pane nell’indocile patria, si colloca in una cornice dominata dalla crudezza oggettiva. Che resta in superficie. I luoghi all’aperto, specie lo specchio d’acqua in cui vanno a largo padre e figlio nel tentativo di vincere l’incomunicabilità che li attanaglia, sembrano offrire più spunti a Mungiu.

Che, nonostante ciò, preferisce puntare sugli ovvi rituali della comunità e sulla risaputa xenofobia dei bifolchi anziché sulla densa ed erudita geografia emozionale. Con ben altre frecce al suo arco per spiegare l’attaccamento alla terra che riflette i palpiti segreti degli stati d’animo. Qualche punto d’incontro, oltre che di scontro, con i bistrattati stranieri è reso con una spontaneità di tratto che aggiunge apprezzabili sfumature ai ritratti altrimenti a tinte nere. Orfano del sottile graffio intelligente ravvisabile nella vena a tratti sarcastica – grazie alla quale seppe travalicare i limiti della lezione moralistica in Oltre le colline e delle componenti manieristiche in chiave mélo in Un padre, una figlia – Mungiu cerca di conferire nell’epilogo all’insorgere delle bestie avvolte nell’ombra lo spessore delle invenzioni figurative in grado di rimediare alla mancanza d’acume beffardo. Con il risultato di regredire la contemplazione del reale nelle malie delle fiabe orrorifiche. Zeppe di echi e controechi. Animali selvatici stenta così a indagare sull’eterno conflitto tra razionalità e istinto, tra tradizione e progresso. Riallacciandosi ad antichi maestri senza mai eguagliarne la statura poetica e autoriale.

 

 

Massimiliano Serriello