Don’t look at the demon: dalla Malesia con orrore

Dalla Malesia e ritorno: il regista Brando Lee (da non confondere con Brandon Lee nelle vesti del regista fantasma), cresciuto nella periferia di Kuala Lampur, trasferitosi negli Stati Uniti per studiare cinema e tv al Columbia College, è poi tornato nella madre patria per girare Don’t look at the demon, lungometraggio horror che condensa idee originali e vecchi stereotipi in un mix singolare (e a tratti confusionario) tra fantasmi classici, possessioni, tradizioni buddiste, maledizioni malesi e traumi infantili dal finale squisitamente “nero”.

Protagonista è la cupa e bravissima Fiona Dourif, che ricordiamo nella saga della bambola assassina Chucky, qui nei panni di Jules, una sorta di medium psichica alle prese con l’occulto.

Non una medium alla Oda Mae di Ghost – Fantasma, piuttosto una cacciatrice del soprannaturale in stile Ghostfacers di Supernatural; insieme al fidanzato produttore e alla sua piccola troupe girano la Malesia in qualità di investigatori televisivi sul paranormale, più per amor di denaro che per il gusto dell’impresa. Ma, arrivati nella inquietante casa di Fraser’s Hill su invito dei terrorizzati Ian e Martha, si trovano di fronte ad una entità particolarmente pericolosa che risveglia i ricordi mai sopiti della Jules bambina, traumatizzata dalla morte della sorella in seguito ad una seduta spiritica a due. Il mistero misterioso in realtà viene “spoilerato” già nell’incipit del film, dove campeggia la descrizione scritta del termine “Kuman Thong”: feti essiccati di bambini morti in utero evocati da alcuni stregoni come protezione o per sfruttare il loro aiuto. La leggenda thailandese del Kuman Thong, o Bambino d’Oro, narra di uno spirito buono che protegge e porta felicità; ma, se colui che se ne serve ha un’anima nera, cosa accade?

Ecco allora che l’entità che Jules e gli altri dovranno affrontare diventa ancor più pericolosa. Lee usa questa e altre tradizioni del sud est asiatico, come i simboli buddisti di protezione, tatuati dolorosamente sulla pelle, mescolandole ai classici del genere quali la possessione, le visioni della protagonista e le porte chiuse da entità soprannaturali in un vortice dove la realtà e le allucinazioni di Jules diventano un tutt’uno fino alla rivelazione finale. Cosa è vero e cosa no? Quale è il legame tra il passato della ragazza e la casa infestata? Ogni domanda troverà una risposta nell’inconsueto e scioccante finale. Don’t look at the demon non racconta dunque la Malesia avventurosa di Sandokan né tantomeno quella moderna ed avveniristica di Kuala Lampur; si inoltra invece nelle regioni interne del paese e riunisce in sé le tradizioni e le superstizioni del sud est asiatico, inserendole in un classico film di genere dalle suggestioni potenti. Il tutto gestito con maestria dalla protagonista, una ottima Dourif che ben impersona la tormentata Jules fino al colpo di scena conclusivo. Chi avrà ancora il coraggio di viaggiare nelle lande più nascoste della Malesia?

 

 

Michela Aloisi