Lontano lontano: i pensionati di Gianni Di Gregorio in fuga dall’Italia

Ben lungi dal ripetere sempre la stessa solfa, come potrebbe sembrare agli alteri e superficiali critici cinematografici intenti ad attribuire ai registi preferiti intenzioni che a loro non sono passate neanche per l’anticamera del cervello, Gianni Di Gregorio è in primo luogo un fior di galantuomo. Affezionato alla natìa Trastevere, ai suoi vicoli, alle piazze, all’indolenza non ipnotica ma certamente significativa dei romani.

Di cui costituisce un modello d’infinito garbo ed estro genuino da anteporre all’imbarbarimento dei trogloditi avvezzi all’uso smodato del turpiloquio, all’esacerbazione delle forme-bandiera degli arguti motteggi, al regresso, ai limiti del ridicolo involontario, del noto cinismo bonario. Lontano lontano, la sua ultima fatica che lo vede impegnato dietro e davanti la macchina da presa ad accrescere l’interazione tra habitat ed esseri umani, non spinge il pubblico più avvertito ed emozionato a tirar fuori il fazzoletto dinanzi all’immagine sul grande schermo del compianto Ennio Fantastichini. Più vivo che mai nell’aderire alle ubbie e agli slanci del restauratore precario Attilio. Un tipo tagliato su misura per la convivialità stabilita pure fuori dal set con gli addetti ai lavori. Che ne rimpiangono le maniere spigliate e la battuta sempre in canna. Oltre al talento interpretativo.

L’essenza moderata dell’antiretorica si va ad amalgamare compiutamente con l’assoluta intelligenza pungente delle circostanze tragicomiche che eleggono il Bar San Calisto ad affabile attante narrativo. Sulla falsariga della tavola calda del vivace e tenero dramedy Paura d’amare di Garry Marshall. In Lontano lontano prevale, invece, la paura d’invecchiare definitivamente con “un par de spicci in saccoccia”. L’incipit, allo sportello per ritirare la scarna pensione, con l’algida trattenuta Irpef nelle vesti della spada di Damocle, è già tutto un programma. L’ironia spicciola ed empatica congiunta ai siparietti legati tanto al bozzetto vernacolare quanto a una modalità di presenza spassosa ma esornativa dei posti capitolini eletti a location cede presto il passo a un’inopinata cura dei dettagli. Gli elementi ambientali nella pertinente interazione tra interni ed esterni, con i consorzi domestici in grado persino di approfondire l’orrida minaccia dell’alienante solitudine alla medesima stregua dell’applaudito scandaglio interiore caro ad Antonioni, tagliano perciò al meglio il traguardo dell’estro. Senza però mai cadere nell’impasse dell’affettazione superba.

Il proposito di mollare baracca e burattini per trasferirsi all’estero, dove i prezzi picchiano meno duro, in compagnia dell’amico per la pelle impersonato con notevole pathos da Giorgio Colangeli svela, oltre agli accenti sommessi, i vigorosi semitoni del Professore. Convinto di aver esortato i propri studenti ad apprezzare le perle di saggezza dei poeti latini. “Ut conclave sine libris ita corpus sine anima” recita, ricordando l’aforisma dell’erudito Cicerone, Gianni Di Gregorio nei panni dell’ex insegnante costretto, pur di coltivare il sogno d’evasione, a vendere un testo raro del Settecento. In atroci condizioni a causa della ripetuta lettura. A nutrire l’anima, una volta svuotata casa dei volumi del cuore, compreso Pinocchio di Collodi, provvede altresì il buon senso comune. Che fa difetto agli intellettuali con la puzza sotto al naso e la sensibilità a scartamento ridotto. “Un poraccio è una persona che vorrebbe fa una cosa e nun la po’ fa” replica Attilio alla dolce ed energica figlia Fiorella. Il sorriso che illumina il volto solitamente crucciato e incupito di Daphne Scoccia, nella parte della simpatica ragazza con maggior giudizio del padre, costituisce la ciliegina sulla torta.

Peccato che le figure di fianco – affidate ad attori brillanti e svegli come Alessandro Bernardini, nel ruolo di un avventore del celebre bar che ribattezza Cristoforo Colombo il vecchietto deciso a prendere il largo – non abbiano in Lontano lontano il giusto spazio. Ciò nondimeno i raccordi di montaggio del bravo Marco Spoletini, al pari della virtù di scrivere con la luce dell’avveduto Gogò Bianchi, riescono ad appaiare le possibilità espressive connesse al territorio, che riverbera l’aura contemplativa dei singolari ed emblematici modi d’agire, con il fascino sempiterno della bontà. Suggellato dal trascinante cameo di Roberto Herlitzka, bravissimo a impersonare un altro distinto anzianotto con la passione per l’alcool e il dono dell’eloquio aulico. Quello pane al pane, vino al vino, per restare in tema, le correzioni di fuoco, che pongono in risalto il pathos d’origine chapliana, l’eco in filigrana del dolce apologo sulla terza età Harry e Tonto di Paul Mazursky, frammisto ai colpi d’ala frutto dell’autentica grazia, chiudono il cerchio restituendo la sostanza dell’amicizia. Senza concedere nulla all’ammicco dell’enfasi. Ed è un bel vedere.

 

 

Massimiliano Serriello