Pane e cioccolata. Brusati, Manfredi e l’odissea della migrazione è il nuovo libro di Gerry Guida e Fabio Melelli

Pane e cioccolata certamente è, a parer nostro, uno dei più importanti film interpretati da Nino Manfredi. Lo è diventato nel momento in cui la commedia si è sposata alla tragedia, al disagio della esistenza. E certamente è anche una pellicola tra le più belle della intera storia del cinema italiano.

Pane e cioccolata, diretto da Franco Brusati ed interpretato da Nino Manfredi, ha avuto un percorso di lavorazione piuttosto difficile già in sede di scrittura del film. Più volte, parlando di Pane e cioccolata, Nino Manfredi aveva reso evidente questo lato. Bene, ora tutto questo, ma c’è anche molto altro, è diventato anche un bel libro di testimonianze e di analisi ideato e curato da Gerry Guida e Fabio Melelli, due tra gli storici più autorevoli e più oculati del cinema italiano.

Ed il volume, Pane e cioccolata. Brusati, Manfredi e l’odissea della migrazione, edizione ArtDigiland, cade proprio a confermare un traguardo, un evento, già aperto da Guida e Melelli con l’immediato precedente Cafè Express. Viaggio in treno al termine della notte: i cento anni dalla nascita dell’attore, avvenuta in terra ciociara, a Castro Dei Volsci il 22 marzo del 1921. Pane e cioccolata dicevamo è un film importante, e grazie al’archivio Brusati, messo a disposizione dagli eredi del regista, Gerry Guida e Fabio Melelli hanno potuto stringere nel dettaglio anche la difficoltà della lavorazione. Nino Manfredi, è risaputo, era tra i colonnelli della commedia all’italiana l’attore più rigoroso e più ligio sulla messa in scena. E il libro coglie in pieno tale rigore professionale dell’attore, soprattutto attraverso le testimonianze dei tanti intervistati, tutti prontissimi ad investire le loro qualità critiche nei confronti dell’attore, giudicando insomma e comunque la performance di Manfredi una prova d’attore di assoluta qualità, degna in fondo del miglior Charlie Chaplin, come poi ha sottolineato anche, in una lunga intervista, lo scrittore Mario Soldati, accostando questa “sintesi della interpretazione “chapliniana”, che Soldati aveva colto in Pane e cioccolata, anche ad un precedente film dell’attore, L’avventura di un soldato, episodio del film L’amore difficile, pellicola con la quale l’attore Nino Manfredi debuttava nella regia cinematografica. Il libro di Guida e Melelli coglie qua e là quello che è stato un po’ il percorso della pellicola, dai primi contatti produttivi alla stesura del copione, fino alla fase finale, quelli che sono stati i momenti, giorno dopo giorno, sempre più difficili, delle riprese vere e proprie. Il film nasceva da una idea del regista Franco Brusati, la storia di Nino Garofalo che, lasciata la famiglia al paesello, spera di trovare in Svizzera quel benessere che la patria li ha sinora negato. Ed in questa situazione, il regista Brusati, pur essendo ricco ed anche nobile in realtà si rispecchiava, lui si sentiva come il personaggio del film, si avvertiva davvero fuori posto nel mondo, proprio come un emigrante in un paese che non è il suo. Quindi il film nasceva dapprima da questa sintesi filosofica, esistenzialista di Brusati. Dopo, con l’intervenuto di Manfredi, il soggetto è stato portato su derive più reali. Le beghe relative alla realizzazione del film, anche il disagio del regista, Manfredi le aveva sempre avvertite e riconosciute, e, pur dispiacendosene, le aveva sempre rese pubbliche, e forse il successo grande del film si deve proprio a questa sterzata voluta dall’attore. In fondo per Franco Brusati, alla fine si è trattato del primo film, dopo averne girati diversi, che ha convinto davvero il pubblico.

Per Brusati insomma Pane e cioccolata è stato l’unico film fortunato al botteghino. Per noi poi due momenti, che nel bel libro di Guida e Melelli a gran voce rivivono, sono rimasti davvero memorabili, degni della più grande poesia e della più grande tragedia, finanche del più onesto umorismo: il balletto degli operai travestiti che finisce tra i singhiozzi di un giovane migrante e la scena, davvero allucinata, della famiglia italiana ridotta a vivere, “nella civile Svizzera”, come polli. Pane e cioccolata, definito un film che rientrava nei limiti della commedia all’italiana, in realtà era molto di più, come il suo interprete, Nino Manfredi, definito troppo frettolosamente e troppo semplicemente un “attore della commedia all’italiana”. Il paletto di “attore della commedia all’italiana”, issato da critici ed enciclopedie autorevoli per delimitare, tutto sommato, il campo di indagine, era così rigorosamente pertinente? Tale definizione, se da un lato testimonia il valore di identità legittimamente riconosciuto al genere della commedia all’italiana per il nostro cinema, dall’altro riduce e sminuisce quello che è stato il valore dell’attore, imprigionandolo nel genere. Se questo è stato vero per Alberto Sordi, riconosciuto un padre autentico della commedia cinematografica italiana, proprio perché egli stesso ne riconosceva l’autenticità, l’ispirazione, la natura e la poesia della sua arte, per Nino Manfredi ciò non corrisponde davvero alla verità. Nino Manfredi rimane un attore che ha fatto anche la commedia all’italiana. Manfredi si è calato in veri e propri personaggi che non sono propriamente personaggi della commedia all’italiana. Manfredi già dai primi anni settanta cercava un “sorpasso” dal genere, i suoi film del periodo infatti entravano proprio a fatica, quasi con forza, in quel genere. Pensiamo, tra i tanti, a film quali Rosolino Paternò soldato, 1970, di Nanni Loy, Roma bene, 1971, di Carlo Lizzani, Trastevere, 1971, di Fausto Tozzi, Lo chiameremo Andrea, 1972, di Vittorio De Sica, Girolimoni il mostro di Roma, 1972, di Damiano Damiani, Pane e cioccolata, 1974, di Franco Brusati, C’eravamo tanto amati, 1974, di Ettore Scola, Attenti al buffone, 1975, di Alberto Bevilacqua, Il giocattolo, 1979, di Giuliano Montaldo, Cafè Express, 1980, Nanni Loy. Quando Nino Manfredi è morto aveva ottantaquattro anni, ma fino a qualche giorno prima del suo malessere, che l’ha mandato in coma per circa un anno, nessuno riusciva ad associare a quella età il tempo della vecchiaia, tanti erano ancora i progetti inevasi. Negli ultimi anni aveva raggiunto una magrezza fisica che era anche il più possibile matura, e la sua maschera davvero si avvicinava ai vertici: Eduardo De Filippo, Buster Keaton con la sua tristezza, Totò, in alcune maschere inventate per Steno, Mario Monicelli, Pier Paolo Pasolini.

Il regista Massimo Ferrari alla presentazione del documentario girato per Sky Arte, Nino Manfredi: nudo d’attore, aveva ricordato come Nino Manfredi, era in Italia uno dei pochi attori, forse l’unico, capace di restare sempre concentrato nella maschera che stava interpretando. Era successo cosi per Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini, per Girolimoni il mostro di Roma di Damiano Damiani, per Secondo Ponzio Pilato di Luigi Magni. Aveva detto ancora Massimo Ferrari: “Manfredi era un uomo dai modi davvero squisiti lo sguardo ironico ed interrogativo lo accompagnava sempre, un attore come pochi in Italia, di grande cultura, capace però di trasformarsi in una specie di furia quando qualcosa non andava nel verso giusto in quello che stava facendo”. Un ricordo ora personale ma è un aneddoto che spiega una virtù, evinta anche, nella loro variante, dalle tante testimonianze raccolte da Guida e Melelli nel volume. Un giorno ho trascinato nella casa dell’Aventino a Roma l’amico Mauro Visari, giovane politico pontino. Eravamo capitati lì in un primo pomeriggio. Nino Manfredi non aveva problemi a rinunciare, rinunciava a tante cose, tutto per lui era poco importante in rapporto al valore umano, “le cose davvero importanti nella vita sono poche” diceva, ma al riposo pomeridiano proprio non sapeva e non voleva rinunciare, per lui restava qualcosa di avvicinabile al sacro. In quel primo pomeriggio era stato dunque svegliato per noi nel suo riposo. In attesa nel salotto della sua casa spiegavo a Mauro proprio l’importanza per Nino del riposo pomeridiano, la famosa “pennichella”, e Mauro si era caricato di tale tensione ed apprensione che quando d’improvviso è spuntato Nino, che guarda il caso veniva proprio incontro a Mauro con indosso un tono ed uno sguardo davvero severo, un piglio che, apparentemente, sembrava non assicurare niente di buono, Mauro vedendolo così imbronciato, con la sua spontanea simpatia e lealtà, non trovò niente di meglio che scaricarmi le colpe dell’intrusione: “mi ci ha portato Giovanni”. E Nino di rimando, ora sorridente e disteso, rispose a Mauro “Giovanni, può venì qua quanno vuole” e ci siamo accomodati sui divani. Ridendo, ricordando e scherzando abbiamo fatto tutti insieme le nove di sera. Sono sicuro che quella serata è rimasta anche per Mauro una grande lezione, da ricordare nel curriculum della sua vita. Così come una grande lezione di rigore e di umiltà viene fuori da tutte le testimonianze raccolte da Gerry Guida e Fabio Melelli nel loro prezioso volume. A parlare di Nino, del film, di Brusati, e della poesia del cinema Melelli e Guida hanno “avvicinato” Luciano Tovoli, Oddo Bernardini, Giacomo Rizzo, Gianfranco Barra, Paolo Turco, Laura Curreli, Mario Morra, Federico Fiume, Nelide Giammarco, Guido Schlinkert. Infine il doveroso omaggio alla sceneggiatrice Iaia Fiastri e la prefazione a culminare, che sa davvero di sana passione e di amore per il cinema, firmata da Andrea Occhipinti.

 

Giovanni Berardi