Si vive una volta sola: Carlo Verdone e gli amici… miei

È sempre più difficile far ridere al cinema. Specie per Carlo Verdone, che, conquistatosi la piena notorietà nel 1980 con Un sacco bello, adattando all’amarezza dei semitoni, frammisti all’accento romanesco, gli sketch cabarettistici perfezionati nel programma tv Non stop, continua a dividere gli spettatori tramite Si vive una volta sola.

Quelli avvezzi ai film underground, che gravitano nei circuiti d’essai, trovando ogni morte di Papa uno spazio nelle sale, sono ostili all’interazione tra battute spassose, ma ritenute di grana grossa, ed elementi spuri. Rinvenibili negli eloquenti silenzi. Bollati come rondini e primavere con poca voce in capitolo. Almeno nell’ambito delle opere d’arte di pura poesia. Il pubblico, o dai gusti semplici, o capace di anteporre le ragioni del cuore ai diktat dell’intelletto, esacerbati dalla ridicola pretesa di sentirsi penetranti emettendo vane e dure sentenze al pari d’una Corte di Cassazione, stravede, invece, per lui.

Questa sua ultima fatica, quantunque, difficilmente sposterà d’un millimetro le rispettive posizioni, getta nuova luce sulla faccenda dei pareri agli antipodi. Non si può negare che impazzino cenni complici ed echi compositi. Alcuni in maniera assai evidente. Altri, sottobanco. Frutto, con ogni probabilità, d’implicite trasmissioni di pensiero, se non d’un calo d’ingegno, nella sceneggiatura redatta insieme al compare pratese Giovanni Veronesi. Il richiamo ad Amici miei di Mario Monicelli, cominciato a Bologna dal defunto Pietro Germi e proseguito a Firenze dal caustico collega viareggino, sommo Maestro della commedia all’italiana, evidenzia l’apporto citazionistico. Che sembra attingere parimenti al sarcastico Curzio Malaparte, originario anch’egli – guarda la combinazione – di Prato. La propensione in Si vive una volta sola agli scherzi del chirurgo capitolino incarnato da Verdone con l’anima scissa in due (la goliardia da una parte e la mestizia dall’altra) trae linfa, sia pure sotto sotto, dal Sassaroli di Adolfo Celi. Ovviamente non c’è traccia della superba voce baritonale, del piglio austero, degli occhi pronti a strabuzzare con ferocia prima di andare a prendere a schiaffi i viaggiatori in partenza sul treno vicino insieme ai compagni d’inesauribili marachelle fuori tempo massimo. La sindrome di Peter Pan, nondimeno, permane.

Al pari dei rimandi, nell’ordine, ad Arma letale 2 – con l’illustre medico affranto dinanzi all’esibizione sul piccolo schermo della ribelle figlia seminuda che strappa commenti lascivi sulla falsariga della sensuale Rianne Murtaugh, per la disperazione del papà Roger – e a I laureati di Pieraccioni. Riletti per mezzo dell’ovvio siparietto del mènage à trois sgradito al dottor Umberto Castaldi. Che non disegna con tutto ciò le burle ai danni dell’ingenuo anestesista interpretato da Rocco Papaleo sulla scorta della nota cadenza meridionale. Qualche svista di troppo, a dispetto della proverbiale cura dei particolari, che prendono il sopravvento su alcuni pacifici dettagli, si va ad aggiungere agli scorci cartolineschi della Puglia in cui il quartetto, rifinito dagli assistenti Lucia Santilli (Anna Foglietta) e Corrado Pezzella (Max Tortora), si reca mischiando la gioia della vacanza all’onere del dovere. La lezione appresa guardando da giovane nei cineclub i capolavori di Antonio Pietrangeli ed Ettore Scola, sull’esempio dello spirito critico ereditato dal babbo Mario, giunge in soccorso di Verdone. Che, in modo analogo a un altro esponente dell’Urbe nella settima arte, Nanni Moretti, antepone all’esca dell’iperbole il dono dell’umiltà e del garbo. I movimenti di macchina al servizio dell’impianto corale, senza spingere le platee assuefate alle soap a tirar fuori il fazzoletto, toccano così la nota giusta. Con la complicità degli accorti raccordi di direzione del montaggio di Pietro Morana.

In cabina di regia l’umanità dell’affabile Carlo raggiunge il diapason trasformando uno scoglio della location sul mare in un catalizzatore del margine d’enigma che, sebbene per pochi istanti, tiene sui carboni ardenti perfino chi aveva subito capito dove sarebbe andato a parare il finto tonto Papaleo. Anna Foglietta conferma di saper conciliare buffoneria di circostanza ed empatia signorile assicurando inattesi risvolti al personaggio della donna bisognosa d’affetto. Propensa a scrivere messaggi di soppiatto convertendo l’interregno del gioco degli equivoci in una sorta di dolce calumet della pace. Max Tortora, nel trarre linfa dalle correzioni di fuoco mandate ad effetto da Verdone dietro la macchina da presa e dagli assist fornitegli davanti, non asciuga certo gli scogli, compreso quello dal quale sembrava volersi buttare la vittima designata, né gioca a basket coi puffi. Bensì giganteggia (non solo per l’altezza concessa dal Padreterno) ed estrae conigli dal cilindro togliendo anziché aggiungere facezie su facezie. E, di fronte all’avanzamento in zona Cesarini di Si vive una volta sola del territorio relegato dapprincipio sullo sfondo a luogo dell’anima nonché all’acume di unire l’antiretorica al gusto della beffa, per vincere lo stress dell’arduo mestiere bisognoso di assoluto rigore ed estremo tatto, hanno ragione le persone ricche di buon senso: siamo tutti verdoniani.

 

 

Massimiliano Serriello