Recensione: Transfert, psicanalisi e colpi di scena per il primo film di Massimiliano Russo

Poca azione, tanti dialoghi e un gioco di specchi riuscito alla perfezione. Al centro della storia c’è Stefano, (Alberto Mica), un giovane e inesperto psicoterapeuta alle prese con pazienti insoliti e complessi. Nelle sue sedute terapeutiche prendono pian piano forma le ansie e le inquietudine delle due sorelle Letizia (Paola Roccuzzo) e Chiara (Clio Scira Saccà), l’impenetrabile tormento di Stefano (Massimiliano Russo), i crucci di Claudio (Enrico Sortino) e sua moglie Alice (Rossella Cardaci). Ma niente di quello che siamo convinti di vedere o capire di queste sedute è davvero come sembra.

Perché Transfert, primo lungometraggio del regista e autore catanese Massimiliano Russo, è una matassa di colpi di scena che sorprendono dall’inizio alla fine. Come in un labirinto, quando si crede di aver trovato la strada giusta si scopre di aver preso la direzione sbagliata. Il mondo della psicoanalisi che Russo osserva in modo insolito diventa la cornice di una pellicola intima dove, ossimoricamente, man mano che ci si addentra nella mente di personaggi del tutto plausibili si ha la sensazione di conoscerne sempre meno la vera natura. E si capisce subito che, al fine di seguire le vicende, è necessario andare oltre ciò che vediamo e perdersi in un meccanismo di traslazioni, dove ogni figura diventa lo specchio di un’altra e dove l’equilibrio psichico, tanto agognato dai pazienti e dal terapeuta, si mostra precario e si frantuma via via che la storia procede.

In bilico tra l’inconscio più intricato e le confessioni ai limiti del surreale, lo spettatore diventa esso stesso (e in maniera riuscitissima) parte di un gioco psicologico che imprigiona. Tutto in Transfert è così piacevolmente contorto che, avviluppati in una rete di tensione senza fine, si ha voglia di non staccare gli occhi dallo schermo fino ai titoli di coda.

 

Valeria Gaetano