Corpus Christi: diavolo d’un (falso) prete

La tardiva uscita in sala di Corpus Christi, sconfitto nel 2020 nella corsa all’Oscar come miglior film internazionale dal sopravvalutato asso pigliatutto Parasite, appaga comunque le attese d’ogni cinefilo che desidera vedere sul grande schermo dei toccanti apologhi sulla ricerca della fede in Dio provvisti degli stilemi delle opere d’impegno civile.

L’intraprendente regista polacco Jan Komasa, già avvezzo nel war movie Warsaw 44 a dare un colpo al cerchio dell’immediatezza espressiva e l’altro alla botte dell’approfondimento storico ed etnologico, punta questa volta anche sulle finezze dell’autorialità. Cercando di congiungere al dinamismo dell’azione l’inquietudine etica dei capolavori in grado di giustapporre l’intenso riverbero esistenziale all’asciutta analisi degli stati d’animo.

Conferire all’aura contemplativa l’appeal della carica emotiva, convertendo l’incognita della noia di piombo in un proficuo alleggerimento per prendere al lazzo sia gli spettatori dai gusti semplici sia quelli affezionati all’ampia gamma stimoli intellettuali garantiti dai valori stilistici, comporta però una particolare destrezza. Nonché il rischio di nascondere dietro la padronanza del mezzo tecnico l’impasse dell’estro genuino. Compensato alla bell’e meglio, mettendo troppa carne al fuoco, dalle idee attinte all’acume degli ineguagliabili numi tutelari. È piuttosto agevole per chiunque abbia a cuore la storia della fabbrica dei sogni riconoscere nella dimensione da incubo di Corpus Christi diversi plagi camuffati da omaggi. Non solo quelli, piuttosto evidenti, nei confronti dell’asciutto ed elegiaco thriller meditabondo Il diario di un curato di campagna, girato dal compianto guru francese Robert Bresson, e dell’avvincente mistery First Reformed – La creazione a rischio di Paul Schrader. Ma pure, sebbene più in filigrana, del bellissimo e negletto The believer di Harry Bean. Stringendo quindi cosa rimane della farina del sacco dell’ambizioso Jan? Certamente l’abilità, esibita appieno nel previo Suicide room incentrato sul cyberbullismo, d’imprimere alle dissonanze psicologiche, all’atmosfera claustrofobica degli interni, alla descrizione dei caratteri, ulteriormente imbarbariti dalla chiusura forzata, la scioltezza d’un horror spurio insieme alla salda struttura dello spettacolo debitamente tinto di giallo.

Il passaggio dal carcere minorile dell’incipit, dove Daniel sogna di acquisire l’ambìto autocontrollo montando in cattedra, allo sperduto paese sconvolto da un atroce incidente, che continua a dividere la traballante comunità sulla condanna morale del colpevole, stenta tuttavia ad accrescere l’idoneo margine d’enigma. Guadagnare in densità evocativa il terreno perso col timbro generico dei campi lunghi e dell’osservazione antropologica nell’ambito degli sviluppi imprevisti, cari ai maestri del brivido, diviene così una mera chimera. Le scelte luministiche, con l’impiego dapprincipio degli algidi bagliori disposti in penombra, cedono presto spazio ad alcune risapute correzioni di fuoco prive dei contrasti necessari a seguire Daniel nell’inganno perpetrato a fin di bene ai danni degli ingenui parrocchiani. I momenti di autentico raccoglimento, gli sguardi colmi di senso, conformi alla bellezza del silenzio, l’elemento ambientale, coi semitoni in pole position, si vanno man mano ad appaiare alla banalità dei giochi incorporei. L’ingegnosa ambiguità legata alla fragile egemonia dello spirito sulla materia, interrotta dall’ovvio richiamo della carne e dalla parentesi romantica preferita al labirinto d’ipotesi stranianti, traligna perciò in aria fritta. Esacerbata per giunta dall’impiego gigionesco dello slow motion che svilisce il temerario proposito di togliere al visibile e aggiungere all’invisibile.

Komasa, infatti, non arriva nemmeno alla caviglia dell’ispirato Bruno Dumont. Capace in Hors Satan di unire all’apprensione della suspense il cortocircuito artistico che va sottopelle svelando la natura immaginifica dell’astrattezza. Promossa ad antidoto contro gli infruttiferi pietismi di circostanza e le componenti manieristiche rinvenibili nell’accumulo di contesti programmatici. Che in Corpus Christi prendono decisamente piede una volta archiviata l’inane speranza di conciliare la poeticità dei dati sostanziali, l’incanto liturgico degli assidui cerimoniali, celebrati dentro e fuori la chiesa profanata dall’imbroglio per inseguire il miraggio del lavacro purificatore, ed empiti ora d’ignoranza ora di dolce scoperta. A dispetto di qualche incisivo movimento di macchina all’indietro, che permette di riflettere sul distanziamento e sul riavvicinamento alle preghiere scambiate sovente per infeconde tiritere, la scrittura per immagini si limita a timbrare il cartellino. L’insistito ricorso in zona Cesarini all’utilizzo virtuosistico della camera a mano e delle concitate carrellate sui balzi ferini dell’impostore, costretto ad abbandonare le mentite spoglie indossate con zelo ed entusiasmo, testimonia la velleità di sostituire l’apparente purezza estetica dell’inizio con lo straziante dolore dell’epilogo. Convertito in insopportabile lagna. Con buona pace dell’adesione in chiave Actors Studio di Bartosz Bielenia all’altalena d’ipnotici sguardi ed efferati scatti dell’instabile protagonista. Corpus Christi, percorrendo solo in superficie la memoria degli illustri antesignani, compie ben poche varianti sul tema e concede tantissime banalità.

 

 

Massimiliano Serriello