Il cielo brucia: l’Orso d’argento di Christian Petzod

Eleggere il divampare d’un incendio boschivo ad apologo antropologico ed etnologico, nonché a fulgida psicologia umanistica, vuol dire anteporre l’inane esercizio di stile all’opportuna osservazione fenomenologica della realtà.

Nondimeno l’abile ed estroso regista tedesco Christian Petzod, dopo aver affrontato in chiave anche – se non soprattutto – metaforica e identitaria l’elemento dell’acqua in Undine: Un amore per sempre, punta ora sul fuoco con Il cielo brucia. Gratificato con l’Orso d’argento Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino e presentato poi a quello di Torino.

La costruzione narrativa, impreziosita sin dall’alacre incipit dall’arguta cura dei dettagli, trae esplicitamente partito dagli incisivi ed empatici dramedy di Éric Rohmer e dalle dense atmosfere checoviane. L’impasse dell’infecondo déjà vu è però subito scongiurato dal personaggio, profondamente sentito, dell’immusonito scrittore Leon che decide di trascorrere l’estate nella casa per le vacanze dell’amico Felix. L’interazione tra interni ed esterni si va ad appaiare al mix d’introversione ed estroversione senza cedere agli stilemi programmatici del film a tema. I gemiti sessuali provenienti nel cuore della notte dal cottage a fianco innescano due diverse reazioni al mondo circostante.

La conoscenza dell’avvenente vicina, Nadja, che fa la gelataia per sbarcare il lunario, per poi declamare con schietto trasporto ed empatica erudizione le poesie di Henrich Heine, e del suo amante occasionale, Devid, un bagnino in possesso d’una sorprendente facondia, spiazza la percezione degli spettatori. Insieme alle fragili convinzioni di Leon. Incapace di ricavare linfa dalla sapida levità degli anni verdi, dalla brezza del Mar Baltico, dall’ordine naturale delle cose rappresentato dalla foresta limitrofa. Il luogo mitico per antonomasia del popolo teutonico. Tuttavia la geografia emozionale ivi congiunta stenta ad acquisire la facoltà di riverberare il turbinio degli stati d’animo. Col passaggio dalla provocazione erotica, mitigata attraverso la putibonda etica della messa in scena, all’innamoramento. Che accresce l’egoismo di Leon, incline al disincanto quasi perenne, e l’altruismo di Nadja. Pronta a entrare subito in contatto con il prossimo.

L’immagine dell’orizzonte dal colore vermiglio per l’incendio che incombe in lontananza, catturando gli sguardi del discordante quartetto, risulta assai programmatica. Mentre il carattere d’ingegno creativo di Felix, deciso a ghermire con la macchina fotografica le occhiate spontanee dei bagnanti rivolte al mare per accedere all’Accademia delle Belle Arti, impreziosisce il sapore di verità. Lontano da qualunque deriva estetizzante. Ciò nonostante l’andamento ascetico ed evocativo dell’assunto procede in modo troppo speculare. La reiterazione dei motivi d’incontro e di scontro non devia dalla prassi delle schermaglie intimistiche a corto d’estro. Il cielo brucia porta così avanti un racconto non privo d’intuizioni e di qualche gradevole colpo d’occhio. Sprovvisto al contempo della sensazione di straniamento ad appannaggio dei capolavori disturbanti. Petzold non rompe quindi mai il velo della finzione, per realizzare un lungometraggio sul serio fuori dagli schemi, ed enfatizza l’epilogo romanzesco che pesca nell’ovvio. A dispetto della prova recitativa tutt’altro che scontata dell’intero cast. Regredito a fattore accessorio.

 

 

Massimiliano Serriello