Upon entry – L’arrivo: l’esordio di Alejandro Rojas e Juan Sebastian Vasquez

Realizzare un film d’autore vuol dire esprimere un’opinione carica di senso sull’argomento alla base del plot attraverso la scrittura per immagini. Ricavando linfa o da un’esperienza vissuta sulla propria pelle o dai guizzi dell’opportuno ingegno. Oppure dall’avveduta interazione d’ambedue le componenti.

L’esordio dietro la macchina da presa avvenuto con Upon entry – L’arrivo di Alejandro Rojas e Juan Sebastian Vasquez, nati entrambi a Caracas, trae spunto da un autentico interrogatorio subìto prima di poter arrivare sul serio a destinazione. Nella presunta terra delle opportunità.

Il suddetto carattere d’autenticità, eletto ad antidoto contro l’impasse di qualsivoglia messa in scena superficiale, basta per approfondire la dibattuta faccenda dei controlli dell’ufficio immigrazione negli aeroporti internazionali sulla scorta del valore aggiunto dall’aura contemplativa? Certamente si tratta d’un thriller antispettacolare incline ad anteporre il sottosuolo dei gesti, frammisti ai rivelatori semitoni, agli accenti dell’enfasi manieristica. Giunti da Barcellona a New York, in attesa di approdare nella sospirata Miami, la coppia formata dall’urbanista Diego Hernandez e dalla ballerina Elena Pamies dinanzi all’imprevista ispezione tradisce step by step lampanti motivi d’insicurezza. Convertiti in suspense meditabonda. Le pieghe dei caratteri, di pari passo alle sottili ma incisive reazioni mimiche dovute a un terzo grado via via sempre più incalzante e sgarbato, delineano una cornice narrativa senz’alcun dubbio solida.

Giacché aliena alle lezioncine di morale degli apologhi didascalici e all’inidonea iperbole sensazionalistica di parecchie pellicole d’impegno civile avvezze ad accattivarsi le simpatie del pubblico dai gusti semplici. Tuttavia il ricorso all’antiretorica non è sufficiente per spingere gli spettatori più scaltriti a non perdere anche una sola sillaba dei dialoghi, taluni sussurrati, altri pronunciati a pieni polmoni in sfida all’autorità costituita e all’assurdità della situazione venutasi a creare, né ad applaudire in modo incondizionato al mix di campo e controcampo che sorregge la secchezza dello stile. Tuttavia l’intarsio geometrico di domande tendenziose, dei classici nodi in trepida attesa di venire al pettine in zona Cesarini, dell’immancabile tarlo del sospetto insinuato in merito alle reali intenzioni di Diego, venezuelano d’origine, additato come poco di buono da un’agente sudamericana dal piglio autocrate, anziché cementare la fragranza dell’originalità, evidenziano il tallone d’Achille dell’infecondo déjà-vu. Richiamando alla mente sia Green card – Matrimonio di convenienza, sia The Terminal. Con buona pace dell’assoluta schiettezza dell’idea di partenza.

L’effigie dei corridoi degli uffici preposti, con i lavori in corso degli operai chiamati ad aggiustare la luministica difettosa e il conseguente rumore che disturba l’aspro colloquio limitrofo, coglie invece nel segno. Manca però la ricchezza di sfumature necessaria ad appaiare il crescente disagio a un compiuto esame comportamentistico. L’intento quindi di andare sotto la pelle sia delle platee dal palato fine sia di quelle meno pretenziose paga dazio alla velleità di comporre step by step un puzzle angoscioso ed emblematico con il fertile surplus delle puntellate satiriche rivolte ai tipici abusi di potere in seno alla burocrazia a stelle e strisce. Upon entry – L’arrivo appare privo della luce obliqua ad appannaggio dei gialli girati ad hoc. L’aria che circola nel debutto in tandem di Rojas e Vasquez risulta infine piuttosto risaputa. A dispetto del filo d’amara ironia dell’epilogo con l’apporto di un brano dal sapore canzonatorio. La prova recitativa del bravissimo attore argentino Alberto Amman nei panni dello sbigottito protagonista maschile resta l’unico fiore all’occhiello d’un vanaglorioso proemio che per il resto dà frutti modesti. Lontani anni luce dai colpi d’ala del miglior cinema d’atmosfera.

 

 

Massimiliano Serriello