Ballo ballo: gli anni Settanta rievocati a passo di danza… e a suon di Carrà

Il regista spagnolo Nacho Álvarez rende omaggio con Ballo ballo – in anteprima esclusiva su Prime Video da Lunedì 25 Gennaio 2021 – alla libertà d’espressione.

Idolatrata dai seguaci del progresso, finanche a passi di danza, spesso irriverente, sin dai primordi della fabbrica dei sogni, e contrastata invece dai censori d’ogni epoca. La rievocazione degli anni Settanta lascia soddisfatto chi cerca nella scrittura per immagini l’aggiunta di gioiosi numeri musicali. Da anteporre al grigiore dell’esistenza. E altresì, sotto sotto, ai dispendi di fosforo.

È appunto la voglia di spensieratezza, in antitesi agli spettacoli accigliati che spingono il pubblico a spremersi troppo le meningi, a costituire l’antidoto ideale contro i musi lunghi. L’aria mélo, ed ergo retrò, dell’incipit, quantunque esposta alla svelta, ribatte tuttavia l’intenzione di anteporre l’onesto passatempo procurato dalla verve stilistica ai mesti aggrovigliamenti.  Le risorse offerte dall’acume burlesco, che vince la sfida dell’intelligenza solo ed esclusivamente quando stringe d’assedio col valore dell’umorismo l’humus funesto, reo di prendersi troppo sul serio, vengono sfruttate a singhiozzo. La protagonista femminile, Maria, fuggita in abito da sposa dalla Città Eterna, lasciando con un palmo di naso il promesso sposo italiano, per far ritorno alla natìa Madrid e svolgere la professione dell’hostess di terra, su sprone dell’estroversa Amparo, prima di entrare nel corpo di ballo del seguitissimo programma televisivo Le Sere di Rosa, rispecchia i canoni sia degli arcinoti woman pictures sia dei musical raggianti. Lo sviluppo difforme della trama, ora ancorata ad alcuni chiari richiami almodovariani, riletti alla carlona, ora avvezza ad appaiare la trascinante letizia delle celebri canzoni di Raffaella Carrà, ivi compresa quella del titolo, con la natura empatica ed eccentrica dell’assurdo poetico, scevro da qualsivoglia bavaglio, snuda le velleità dell’avventizio autore.

Il ricorso ai continui cromatismi laccati e agli ambiziosi stravolgimenti luministici, al fine di trovare una fertile alternanza ai disaccordi della realtà nelle fughe oniriche innescate dal desiderio di dimenarsi in armonia, stenta ad assumere una solida funzione creativa. La causa delle polveri bagnate in tal senso risiede nel carattere spiccio e generico delle pause contemplative. Che sarebbero dovute divenire, sulla scorta dell’opportuna forza immaginifica, il terreno degli svolazzi fantastici. Conformi all’inno all’amore e all’autonomia. Il succo della storia, con le opprimenti regole etiche imposte dall’austero Catone di turno, mentre le frecce di Cupido vanno incuranti a bersaglio, non ricava linfa dai vani cambi di angolazione. Né dallo sguardo lanciato alla bell’e meglio dietro le quinte. Ad Álvarez, infatti, manca l’estro tagliente di John Cassavetes nell’apologo sul mondo dello spettacolo La sera della prima. L’affresco sociale traligna perciò in mero bozzettismo. Sprovvisto pure della sagacia parodistica dell’eclettico Michael Hoffman in Bolle di sapone. L’inane sapore della satira, le emozioni suscitate dall’irrompere dei famosi brani, gli scodinzolii in campo e controcampo, nei consorzi domestici, davanti al piccolo schermo, all’insegna dell’intesa muliebre, la molla dell’amore, l’impasse dell’incomprensione creano effetti disuguali.

La reiterazione degli zoom in avanti, dei movimenti di macchina a schiaffo e delle carrellate circolari appartiene a un ovvio repertorio che, invece di trascinare gli spettatori all’applauso, o tenerli almeno legati alla poltrona, ricama inconsapevolmente il velo della noia di piombo. Con buona pace dei perpetui inchini nei confronti dell’intensa leggerezza. Ghermita dai vivaci ancheggi, dalle curve in evidenza, stigmatizzate dai goffi sorveglianti, dal tono giocoso, preferito alle note gravi, dal tenerume confuso con il romanticismo. L’intarsio d’interni, scanditi dalla perenne palpitazione per l’attesa prova del nove, ed esterni, ridotti a sfondi pretestuosi anziché ad attanti in grado di riflettere gli stati d’animo, paga dazio all’inidonea enfasi figurativa. Ben lungi dall’arricchire il disegno dei personaggi e il coefficiente d’intelligibilità dell’epilogo. Che cementa l’egemonia delle smorfie sulla compiutezza mimica. Necessaria ad accrescere il fascino degli hit autoctoni. Remixati con una gamma espressiva fuori dalle corde del cast. Votato all’immediatezza. Per eludere grattacapi alle platee dai gusti semplici. Ballo ballo riserva quindi poche sorprese. A parte trascinare l’energia spirituale dei volteggi e delle coreografie nell’accidia dei pesanti segni d’ammicco.

 

 

Massimiliano Serriello