Botero – Una ricerca senza fine: il documentario su un artista straordinario

La rinuncia da parte degli autori dei documentari alla recitazione risulta a chi taglia tutto con l’accetta, nella convinzione di afferrare i massimi sistemi, il sintomo dell’antiretorica. Eletta ad antidoto contro la capacità di presa immediata garantita dal gioco fisionomico e dall’ampia aderenza ai personaggi reali nel corso della finzione scenica.

La disponibilità del vero Fernando Botero Angulo – stimatissimo ed eclettico pittore, scultore e disegnatore colombiano – non ha però determinato per il pur industrioso regista Don Millar l’egemonia dell’asciuttezza sull’enfasi. Botero – Una ricerca senza fine è, infatti, un’opera che aggiunge l’affetto al sentimento. Con l’ovvio risultato di cadere nella svenevolezza. E, quindi, anche nella monotonia. Perché ciò che costituisce un’impennata espressiva per ogni film di finzione avvezzo a tali escamotage diviene un’arma a doppio taglio nel campo accidentato dell’informazione culturale.

Sin dall’incipit, sulla scorta di una colonna sonora accattivante ma manieristica, il dietro le quinte delle rassegne tenute dall’esimio artista sudamericano rientra nell’ordinaria amministrazione. Al contrario di quel che sarebbe avvenuto se certe tecniche di straniamento avessero penetrato la complessità di un’indole tanto geniale. Approfondita reinventandone, magari, in camera caritatis alcuni aspetti cruciali. Ritenuti di poco conto lì per lì. Senza questa licenza di decidere come arricchire il punto d’insita convergenza tra componenti nude e crude ed elaborazione introspettiva, grazie all’opportuna carica fantastica, occorre il colpo d’ala dell’estro, ad appannaggio di autentici fuoriclasse del calibro di Gianfranco Rosi e Joshua Oppenheimer, per andare oltre una deleteria piattezza munita soltanto di pleonastiche strizzatine d’occhio. Millar, degno d’encomio sul piano della divulgazione di specie giornalistica per essere riuscito in passato a portare a galla i danni inflitti all’ambiente dalla cinica compagnia petrolifera ExxonMobil, con conseguenze disastrose ai danni soprattutto del riscaldamento globale, barcolla. Anche se, come si dice, non molla. D’altronde un conto è padroneggiare il peso informativo della notizia, un altro paio di maniche è conferirgli il valore di rappresentazione sul grande schermo. Sostituire l’asse portante dell’aura contemplativa col vizio, ormai piuttosto diffuso, di trarre partito dall’acume altrui, per poi o far finta di nulla o spacciare i plagi per omaggi (delle due non si sa quale sia peggio), è già di per sé un’autorete. Ci mette una pezza, quantunque alla buona, l’interessante sequenza in cui Botero rinvanga a tavola il passato insieme ai propri figli.

L’amarcord, però, chiaramente predisposto nella fase ex ante, sulla base delle indicazioni del prodigo co-sceneggiatore Hart Snider, artefice non a caso pure del programmatico montaggio, nel momento clou, chiamiamolo in itinere, non coglie affatto l’idonea giustezza interiore. Permane un ché di artificioso unito alla disinvoltura dei dolci sguardi scambiati dai congiunti nel (ri)percorrere il viale dei ricordi a braccetto dell’illustre capostipite. Le composite voci fuori campo, volte a darsi il cambio con schematica solerzia, anziché garantire il senso della scoperta al viaggio reminescenziale, costituito dalle foto in bianco e nero giustapposte, al pari dei filmati di repertorio, alle immagini del presente in vena di flashback, finiscono col nuocere all’efficacia di alcuni silenzi colmi di significato. La “minerale immobilità” dei monumenti di marmo nero, che il vate degli inviati speciali nostrani, Indro Montanelli, nel raccontare le vicende della storia autoctona, seppe tramutare in sapida aneddotica, affidandosi alla virtù dell’umorismo pungente, mantiene, invece, l’inane freddezza. Con buona pace dei continui movimenti di macchina in chiave asincrona. L’inesausta ricerca suggerita dal sottotitolo resta perciò latitante. Inoltre la prole cresciuta che rinviene, apparentemente motu proprio, il materiale inedito sul venerabile genitore richiama fin troppo alla mente l’inizio del cult I ponti di Madison County diretto da Clint Eastwood. Con i trascorsi della signora Francesca alias Meryl Streep scoperti dal sangue del suo sangue in mezzo agli scatoloni. Come conviene alle vicende romantiche attinte a piene mani alla monumentale meraviglia letteraria À la recherche du temps perdu di Marcel Proust.

Quello di Botero, capace d’imprimere all’effigie della caricatura lo slancio dell’anima che risiede nel cortocircuito dell’invenzione pura e nella virtù evocativa del timbro trasfigurante, non è tempo perso. Il panegirico ivi connesso, nondimeno, anche se strizza l’occhio al Bel Paese, rimarcando il legame dell’erede di Caravaggio e Picasso con l’Italia, Firenze in particolare, non serve a comprendere la ragione di quelle sagome generose. Né dell’emblematico foro di risonanza. All’origine, all’inverso, degli accostamenti ridotti al lumicino. L’affetto altresì per Pietrasanta, per gli Champs-Elysées a Parigi, e per qualsivoglia posto del pianeta dove troneggia il frutto del carattere d’ingegno creativo contraddistinto dalla trepidazione estetica, che rimanda alla fondamentale bellezza interiore, innesca uno spettacolo di terz’ordine. Ed è l’impasse maggiore di Botero – Una ricerca infinita. Considerando la statura artistica del protagonista. La concezione mitopoietica dei luoghi cede il passo agli effimeri motivi di fianco. L’evidenza, all’opposto, dei suggestivi match-cut e degli assidui tagli di luce sui volti di ciascun testimone accreditato del sovvertitore delle norme comuni, aliene all’eterea sensualità nascosta nelle scomode metamorfosi, accredita l’ambìta narrativizzazione. L’assenza in Botero – Una ricerca senza fine della geografia emozionale rinsalda tuttavia il rimpianto per l’occasione persa che ribalta in tenerume il fervore profuso nell’apogeo dell’inventiva.

 

 

Massimiliano Serriello