Dio è donna e si chiama Petrunya: il dramedy di una donna sovrappeso e sottotono

L’operazione condotta dalla scrupolosa ed erudita regista macedone Teona Strugar Mitevska con l’insolito dramedy Dio è donna e si chiama Petrunya consiste in primo luogo nel riuscire ad anteporre all’inutile ricamo psicologico l’assoluta forza significante di un saldo timbro introspettivo.

Il tema della dignità femminile, svilita dalla barbarie quotidiana in seno a società apparentemente civili e devote alla forza della tradizione ed ergo dell’emblematica consuetudine, cadrebbe nelle secche di enfatiche componenti manieristiche, o, peggio che andar di notte, nei toni anaffettivi dell’arida antiretorica, se non ci fossero a sostegno degli opportuni colpi d’ala. Forse non geniali, ma certamente capaci di convertire alcuni ripieghi bozzettistici in sapidi mutamenti di prospettiva.

E ad avere un peso risolutivo è proprio l’acume d’inserire dei repentini, seppur sottili, cambi di rotta, dal punto di vista estetico ed espressionista, nell’amara vicenda della trentaduenne Petrunya, afflitta dall’ingombrante sovrappeso e dall’autocrate madre.

Mentre la messa in scena iniziale dei soliti versanti in ombra, frammisti ad alcuni pur intensi primi piani, aggiunge ben poco all’effigie dell’introversione, che traligna nella rabbia animalesca, già scandagliata, e con più destrezza autoriale, da Xavier Dolan in Mommy, l’inatteso prosieguo alza il tiro.

Ad acquisire il dono della compattezza è specialmente l’impiego dell’opportuna geografia emozionale in grado di cogliere appieno l’interazione tra la protagonista, laureata in storia ma disoccupata dalla nascita, e l’algida cittadina di Štip.

Anche se l’ingresso in una delle innumerevoli fabbriche tessili del luogo non lascia del tutto persuasi, a causa degli arcinoti contrasti sonori e visivi mandati ad effetto per supportare l’ovvio impressionismo soggettivo dell’ex ragazza dallo sguardo di ghiaccio, il colloquio di lavoro con l’empio principale palesa soluzioni tecniche assai meno risapute.

Quando, al fine di vincere l’angoscia dell’ennesima umiliazione, l’eroina per caso si tuffa nelle fredde acque limitrofe per recuperare una splendida croce, battendo così in volata il gruppo di fanatici coinvolti nella cerimonia religiosa avversa ai profili di Venere, emergono varianti davvero inattese. L’oltraggio al folclore ortodosso, lo schiaffo all’austero ordinamento giudiziario e l’implicito ghiribizzo giocato ai danni dello spirito di corpo della banda dei trogloditi autoctoni innescano, infatti, vibranti dinamiche narrative.

L’innesto degli stilemi dei thriller chiamati a tenere sui carboni ardenti anche gli spettatori poco persuasi dalla spettacolarizzazione dell’angoscia, insieme ai sapidi intermezzi umoristici ad appannaggio della satira di costume, si va ad amalgamare al compiuto rapporto d’umana pietas. Il passaggio dalla misericordia all’ammirazione, sino ai palpiti dell’attaccamento protettivo, da parte del gendarme innervosito dai metodi intimidatori usati dal bieco superiore, per costringere la sgradita vincitrice alla resa, emana verità.

L’insistito ricorso, invece, ai pedinamenti zavattiniani, in omaggio al Neorealismo, e alle programmatiche correzioni di fuoco, per tenere desta l’attenzione del pubblico veicolandone lo sguardo anche verso certe rilevanti figure di fianco, segue la maniera, ormai piuttosto scontata, della tensione formale. L’idoneo nitore contenutistico, che conferisce linfa ai teneri indugi dell’inopinata paladina dentro la centrale di polizia, cinta d’assedio dall’ottusa folla inferocita, contribuisce, viceversa, ad animare ulteriormente l’abile trama.

Il senso di perenne affanno, garantito dagli alacri movimenti di macchina a schiaffo e dalla giusta padronanza della camera a mano, benché lungi dal raggiungere vette poetiche, combina l’insito dinamismo all’analisi degli stati d’animo. L’esame comportamentistico, però, che presiede alla bell’e meglio nel ritratto comunque simpatico della reporter che solidarizza con Petrunya e suggerisce un’ipotesi degna di nota, esce definitivamente dal bozzolo grazie all’imprevedibile maschera espansiva covata dietro il piglio chiuso ed estremo.

Buona parte del merito va attribuita alla toccante ed energica prova recitativa della bravissima Labina Mitevska, sorella dell’autrice del film, impossibile da accusare di familismo e preferenza. L’intesa di sangue manda appunto a farsi benedire qualunque tipo di sterile elucubrazione speculativa. A convertire la teoria in prassi provvedono i semitoni riposti negli affetti domestici, sviliti dalle scorciatoie del cervello, gli accenti antropologici ed etnologici e il talento dimostrato nel conciliare tratti distintivi dapprincipio agli antipodi.

La straordinaria naturalezza del momento clou, estraneo al vacuo frastuono delle impennate ampollose, con il prete ormai consapevole che se l’Onnipotente fosse donna tutto quel baccano sarebbe rispedito al mittente, coglie nel segno. L’ostinata dinamicità interiore, giustapposta a ogni piè sospinto ai diversi attimi d’inquietudine convertiti ora nel climax da brivido seguito col fiato in gola ora in affondi amari molto dimessi, prende infine quota ed estrae il coniglio dal cilindro. L’eco dei capolavori di Charlie Chaplin, e quindi pure degli appassionanti romanzi del sensibile Charles Dickens, scalda in tal modo persino il rigido inverno macedone in Dio è donna e si chiama Petrunya.

 

 

Massimiliano Serriello