First cow: una concertazione poetica sui generis

L’abile ed erudita regista statunitense Kelly Reichardt conferma in First cow l’attitudine ad avvalersi della geografia emozionale per approfondire le ragioni storiche legate ai territori eletti a location.

Agli stilemi dei western panteisti, con il mito della frontiera scandagliato in filigrana attraverso dinamiche figurative colme di senso, si va ora ad aggiungere una concertazione poetica fuori del comune.

A differenza dei film precedenti, da Meek’s cutoff – Il sentiero di Meek a Certain women, interpretati sempre dall’attrice-feticcio Michelle Williams per unire l’incisività della psicotecnica recitativa allo scandaglio antropologico dello spazio preso in esame, i trapassi di tono acquistano uno spicco notevole. Forse perfino decisivo. All’aura contemplativa della prima parte, contraddistinta dai timbri rigorosi ed essenziali del severo lavoro di sottrazione, corrisponde nel secondo tempo un pathos in grado di tenere gli spettatori sui carboni ardenti. L’apparizione, in mezzo, di una prosperosa mucca a bordo della canoa sul Columbia River, mentre i grevi cacciatori di pellicce battono le foreste dell’Oregon in cerca di selvaggina, ingenera alcune aspettative sul versante simbolico destinate a cedere la ribalta alle tensioni psicologiche, alla forza significante dei paesaggi riflessivi, al viaggio di scoperta e conoscenza che trasporta il pubblico in un’atmosfera al contempo d’incertezza ed empatia. Riprendendo il filo interrotto solo ed esclusivamente in zona Cesarini. Le fasi di solitudine dell’incipit, che mostra il mansueto ma industrioso cuoco Otis Figowitz detto “Cookie” trovare dei viveri per gli sprezzanti trappers sedotti dall’epos dell’Ovest, vanno subito oltre i risaputi e sterili colpi di gomito degli affreschi avventurosi. L’incontro col disinvolto emigrato cinese King-Lu, sfuggito a un manipolo di pendagli da forca d’origine russa, innesta nell’apologo sugli usi e i costumi dei differenti popoli accorsi nel Nuovo Mondo l’aria di complicità delle commedie buddy buddy.

La trasposizione sul grande schermo dell’avvincente romanzo The half-life di Jonathan Raymond, che cementa l’analisi degli stati d’animo nella regione del Pacifico nord-occidentale mettendo a confronto il 1820 quando la voga dei cappelli di castoro inizia a scemare e gli anni Ottanta del secolo scorso sulla scorta delle inobliabili tracce, antepone quindi al doppio ed emblematico binario una scrittura per immagini dapprincipio troppo sofistica. Quantunque capace d’inserire nella cornice di armonie e disarmonie congiunte agli insediamenti agricoli, alle accese spedizioni, alle scazzottate da saloon, protratte sullo sfondo volutamente sbiadito, alcune scelte luministiche d’alta scuola. Merito dell’avvertita fotografia di Christopher Blauvelt e del fermo desiderio d’indirizzare lo sguardo su ciò che conta davvero. Grazie all’uso compiuto ed evocativo delle correzioni di fuoco. Superiori di qualche spanna alle norme esplicative dei dialoghi in merito alle opportunità da cogliere compatibilmente con l’espansionismo degli autocrati europei, gli eloquenti silenzi degli indiani nativi, le rivendicazioni straniere sui vari luoghi e le esplorazioni in perenne divenire. Nondimeno la metonimia, intesa come “la parte per il tutto” cara al maestro sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, appaga la sete di sapere dei cinefili interessati all’oggettività pura del quadro ambientale; le riprese ravvicinate degli scorci esistenziali nelle baraccopoli, attigue al lussuoso presidio del sovraintendente anglosassone dell’American Fur Company, trascendono le pagine illustrative attinte agli ormai triti e ritriti tableaux vivants; l’effigie di una bimba esotica ed eterea, che nobilita col piglio muliebre le mansioni più umilianti, conferisce alla suggestione lirica i palpiti della tenerezza.

Il commercio messo su dalla strana coppia mungendo di soppiatto la mucca dell’altero funzionario britannico, per poi ricavarne delle frittelle al latte da leccarsi i baffi, dona nerbo ed energia all’impianto narrativo; assimila nell’afflato di speranza i timbri giocondi frammisti alla critica sociale; rimedia allo spettacolo accigliato, pur sorretto dalla qualità plastica delle inquadrature; sprigiona l’acume dell’idoneo ghiribizzo. Con i nodi che vengono al pettine, la suspense è impreziosita dagli squarci onirici: una danza sciamanica conferisce al rapporto tra realtà nuda e cruda ed elaborazione fantastica l’emblematico preannuncio dello spirito risolutore, l’egemonia morale sulla materia, ivi compreso il latte della mucca, pomo dell’insanabile discordia, l’antidoto contro le fatue sofisticherie dei cascami decorativi. Ad animare la scena, altrimenti schiava dei bozzetti intimisti preferiti lì per lì al brio dell’arco introspettivo, provvede la sensibilità per le variazioni cromatiche. A quel punto gli aghi di pino, gli sterpi, le foglie, i fusti vorticosi, i tuguri, l’abitazione dell’invasore derubato dai due paria chiudono il cerchio. La molla dell’ispirazione, frenata talvolta dall’esasperante lentezza, supplita qua e là dai movimenti di macchina da destra a sinistra che preannunciano l’irrompere dei conti da regolare, scatta al meglio ed emana nei dilemmi segreti un pudore estraneo al banale margine d’enigma dei thriller insinuanti. John Magaro (“Cookie”) parla con gli occhi e ipnotizza la mucca da latte sciorinando i modi gentili delle anime belle. Orion Lee (King-Lu) alterna la misura del sentimento in chiaroscuro al segno d’ammicco delle battute in confidenza. Il tocco sincero delle figure di contorno spesso persuade maggiormente dell’annosa sensazione di morte del prologo, della mistica dell’ordine naturale delle cose, dell’inidonea carica arcana affidata all’ennesima interazione fra interni ed esterni. First cow agli scontati ostacoli da superare replica trasformando gli eventi minimi in memorabili movie moments.

Dal 9 Luglio 2021 su MUBI.

 

 

Massimiliano Serriello