Giotto e il sogno del Rinascimento: la sete di sapere del cinema

L’intento dichiarato dell’ambizioso regista Francesco Invernizzi col documentario Giotto e il sogno del Rinascimento consiste nel riuscire ad appassionare tre tipi di spettatori.

Quelli totalmente all’oscuro della storia dell’arte, ma desiderosi di colmare le proprie lacune attraverso la visione di pellicole considerate alla stregua di romanzi per analfabeti; il pubblico con una conoscenza scolastica degli argomenti in questione ed ergo deciso ad approfondire la materia trattata attraverso la concordanza tra realtà ed esplorazione informativa; gli esperti attratti, comunque, dal pluralismo d’idee in merito all’egemonia della luce dell’età moderna sul vetusto oscurantismo.

Il punto è capire se la scrittura per immagini posta in essere da Invernizzi conferisca un valido valore aggiunto all’analisi delle diverse opere pittoriche e scultoriche. La musica d’accompagnamento dell’incipit, l’effigie dei monumenti padovani in bella mostra, gli stilemi della geografia emozionale sugli scudi sembrano scongiurare lì per lì il rischio di cadere nella deleteria noia di piombo. L’assenza d’un’alacre tenuta stilistica in cabina di regia è sostituita dalla facondia espositiva dell’emerita ricercatrice Rita Deiana, dalla chiarezza della professoressa dell’Università degli Studi di Padova, Zuleika Murat, nonché dal senso d’appartenenza rimarcato dagli sceneggiatori Matteo Strukul e Silvia Gorgi. Allo scopo di dimostrare come Padova nel Trecento abbia anticipato Firenze nel Quattrocento con l’approdo del fulgido ed emblematico periodo di rinnovamento culturale e umanistico. I raccordi di montaggio danno immediato risalto ai luoghi della memoria. Al pari della componente luministica garantita dall’abile fotografia, soprattutto nelle affascinanti e pertinenti variazioni cromatiche.

Il ciclo di affreschi realizzato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, in concomitanza del concepimento della Divina Commedia da parte di Dante Alighieri, traccia l’inizio di una disamina ad ampio raggio. Con le fasce inferiori e superiori delle diverse facciate in rilievo al pari dell’immagine della vita di Cristo, della Madonna, dei simboli del Vecchio e Nuovo Testamento. Un’anticipazione, anche secondo l’Onescu, della prospettica rinascimentale. Se ci è riuscito Giotto ad anticiparla significa che ci sia riuscita altresì in todo la città di Padova? Inoltre il carattere d’ingegno creativo riscontrabile nel bacio più antico della storia dell’arte cristiana, all’interno delle vicende della Madonna e di Gesù, le dimensioni spaziali al centro degli affreschi della Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, la resa complessiva si vanno sul serio ad appaiare alla forza significante dei movimenti di macchina? La velleità d’imprimervi una sorta di dinamismo dell’azione – suggerita dai racconti su strenue contese politiche, dall’arrivo al loco di figure d’enorme rilievo nel campo umanistico, dalla scissione del “nuovo” dal “vecchio” – va strada facendo a carte quarantotto.

I carrelli in avanti sui mobili pregni di vicende ivi connesse, l’inquadratura sbilenca dei santi, certe panoramiche in verticale dal basso verso l’alto, o a schiaffo, risultano funzionali. Però nulla di più. Era invece necessario uno sforzo ben maggiore per chiarire la sottigliezza pittorica concernente le somme pennellate di Giusto De’ Menabuoi nel Battistero della Cattedrale di Padova. La penuria d’una correlazione profonda tra lo spazio pittorico e la direzionalità dello schermo svilisce pure la ricerca del climax. Indispensabile per spiegare la partecipazione dei sensi mediante lo sguardo delle opere che rappresentano l’Alfa e l’Omega del Trecento padovano. Restano quindi altrettanto in superficie i tentativi di associare le vette d’illusionismo prospettico al gusto, un po’ snob per altro, del puzzle tutto da scoprire. Idem per la conversione dei molteplici ed epigrammatici motivi d’incertezza nella granitica certezza emanata dal piedistallo a forma di sarcofago con le porte della Vita e della Morte. Giotto e il sogno del Rinascimento chiude dunque i battenti con il fascino del mausoleo equestre, che suggerisce la conclusione delle facinorose opinioni agli antipodi, senza convogliare davvero alla sete di sapere la linfa decisiva della Settima arte.

 

Massimiliano Serriello