Il lupo e il leone: i buoni sentimenti del regno animale

Gli scenari deprimenti degli apologhi metaforici ed esistenziali non rientrano negli input espressivi del pur poliedrico regista transalpino Gilles de Maistre. Che, nel passaggio dal carattere d’autenticità dei documentari ai segni d’ammicco degli enfatici film di finzione, sembra preferire alla polpa della geografia emozionale la gelatina del pistolotto edificante ivi congiunto.

La sua ultima fatica, Il lupo e il leone, lo conferma in modo inequivocabile. Spesso gli scenari deprimenti, in quanto sconnessi dallo sfondo inerte degli spazi naturali incapaci di riflettere l’altalena degli stati d’animo, assumono notevole forza significante. Razionalizzando l’assurdo sulla scorta della suspense meditabonda e dell’ampio margine d’enigma. Che costituisce il motore della poesia.

Al contrario gli scenari cartolineschi, avvezzi a riempire l’occhio restando in superficie, risultano prevedibili. Giacché gonfi di retorica. Ed ergo estranei a qualsiasi colpo di scena, ai valori plastici dell’immagine, allo sviluppo della trama, al senso della scoperta, al punto d’arrivo, ai timbri evocativi dell’ordine naturale delle cose a braccetto con gli stilemi del viaggio di formazione. L’attitudine ad aggiungere sentimento al sentimento, cadendo inevitabilmente nel sentimentalismo, appaga largamente le attese solo degli spettatori che considerano una “barba” la dimensione antropologica ed etnografica connessa alla scoperta della cosiddetta alterità. Viceversa Robert Bresson sottraeva anziché aggiungere particolari roboanti per veicolare lo sguardo spettatoriale sul versante riflessivo. Accrescendo il processo d’identificazione del pubblico con bestie dal cuore d’oro e dall’animo puro. Come in Au hasard Balthazar. Col lavoro di sottrazione sugli scudi nelle traversie dell’asino chiamato come il secondo dei Re Magi in giro lungo gli scenari più negletti della campagna francese. Scenari perciò tutt’altro che cartolineschi. Al pari della cascina di pianura a Palosco, nella campagna bergamasca, che nel pudico ed emozionante apologo sull’universo bucolico L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi cadenza la linearità dello spirito dei contadini che accettano le ingiustizie perpetrate ai loro danni con la rassegnata sottomissione di chi crede nei miracoli e nella benevolenza del Padreterno affinché il maltempo non mandi in malora il raccolto. Mentre il cavallo s’imbizzarrisce dinanzi all’iniqua egemonia del crasso materialismo sullo spirito che anima l’intero quadro agreste. Lontano anni luce dalla campagna reggiana mostrata da Bertolucci in Novecento coi contadini stufi di patire e sudare come bestie da soma al punto da agguantare i forconi per rimettere in pari le cose.

Il lupo e il leone, sotto questo aspetto, non paga dazio alle distorsioni maliziose dell’ipocrita livellamento ugualitario. Tuttavia le modalità esplicative della geografia emozionale di grana grossa pregiudicano i modi di agire e di reagire dei personaggi alle difficoltà. L’elementare efficacia dei match-cut visivi e sonori, gli arcinoti accordi, gli scontati disaccordi, le gag d’alleggerimento, l’ambizione dell’immusonita Alma (Molly Kunz), le doti di pianista, il richiamo della terra avvertito nel cuore della Grande Mela, l’effigie dell’isola canadese, le abilità olfattive degli animali che vi abitano, l’interazione tra interni ed esterni, lo zoo di Vancouver, le colpi dei padri cinici che ricadono sui figli sentimentali, il cucciolo di lupo che stringe amicizia col leoncino, l’ennesimo aereo caduto dal cielo per combinazione, la studentessa decisa a fare le veci della madre, i ranger, gli intoppi, le peripezie compongono un quadro molto scontato. Senza mistero l’opera di giustapposizione del viaggio come scoperta di nuovi luoghi e il confronto dell’alterità, destinata step by step a divenire familiare, con la documentazione iconografica dell’armonia della natura paga dazio alla mancanza di uno spazio realmente attivo. L’azione narrativa perciò, nonostante qualche abile innesto nel mix d’informazione culturale ed elaborazione panteistica, rimesta vecchi motivi d’insicurezza. E, di conseguenza, gli stilemi del thriller di maniera. Che aggiungono aria fritta ad alcuni apprezzabili momenti di tensione realizzati ricorrendo ai modi asciutti del documentario nudo e crudo. Quando è lo sforzo rigoroso a guidarlo Gilles de Maistre convince appieno; quando la tensione verso la diversità, l’alterità, le cose in buona sostanza nuove da scoprire, al posto di quelle trite e ritrite, è scalzata dalla classica minestra riscaldata, che sa di déjà-vu, le possibilità narrative si esauriscono.

Di conseguenza all’amplificazione artificiale del rapporto che s’instaura tra i personaggi, in primis chiaramente Alma, e i cuccioli diventati adulti, ma rimasti complici persino a distanza, fa seguito l’impoverimento dell’impianto narrativo ed evocativo. Costretti ad agire e a reagire in un territorio bellissimo e inerte, talvolta indifferente con buona pace dell’identità specifica conferita all’isola eletta a location, i personaggi non spiccano mai il volo. Appaiano cioè privi di mistero. La recitazione sopra le righe impedisce al regista di trasportare gli spettatori nel clima d’attesa conforme al genere avventuroso. La scrittura per immagini va a corrente alternata: convince sul piano documentaristico che costituisce la superficie del film; delude nell’approfondimento. Con la verosimiglianza che va a carte quarantotto, le soluzioni registiche rimandate alle calende greche, il destino dei popoli unito alla fratellanza tra razze diverse alla bell’e meglio i motivi figurativi non sprigionano mai i necessari motivi introspettivi. Resta tutto in superficie. A dispetto dei campi lunghi mostrati a ogni piè sospinto. Senza la necessità espressiva capace d’intenerire le platee allergiche alla stilizzazione dei buoni sentimenti la stilizzazione persevera diabolicamente; l’angelizzazione degli amici a quattro zampe, disgiunti dal territorio di appartenenza, confeziona una macchina dello spettacolo piuttosto fragile. Il lupo e il leone rimane così prigioniero delle vane carinerie, di scene madri decisamente telefonate, dei morbidi accordi di pianoforte sostituiti, palmo a palmo, dall’invadenza della colonna sonora, dell’infecondo sentimentalismo che ci trascina nell’irrealtà. I buoni sentimenti, quelli veri, hanno ben altre frecce al loro arco.

 

 

Massimiliano Serriello