Isolation: l’impegno civile di cinque autori agli antipodi

L’indubbia polivalenza stilistica ed espressiva del documentario Isolation, presentato alla settantottesima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nell’ambito dell’interessante rassegna autonoma Giornate degli autori, risiede nei compositi punti di vista di cinque registi europei agli antipodi tra loro: Michele Placido, Julia von Heinz, Olivier Guerpillon, Jaco van Dormael e Michael Winterbottom.

L’argomento da scandagliare a fondo attraverso l’incisiva ed emblematica scrittura per immagini riguarda lo stato di estraniazione dovuto all’irrompere della pandemia nel Vecchio Continente a partire dal 9 Marzo 2020.

Quel primo lockdown, al di là degli sterili pareri discordanti sulla pericolosità del Covid-19, è ricordato soprattutto per le misure restrittive applicate per affrontare l’emergenza epidemiologica e il sentimento d’insicurezza concernente la ripresa a pieno regime dei cosiddetti spettacoli dal vivo. Il nostro Michele Placido nel primo episodio, intitolato La morte addosso, traendo partito dall’omonima novella di Luigi Pirandello per adattare le tematiche del relativismo della realtà, sul tran tran giornaliero, e dell’incomunicabilità alla condizione di disagio inasprita dall’Ubi Maior Cessat a scapito dell’economia in generale, ivi comprese le imprese teatrali, trasporta gli spettatori in un’atmosfera mesta. Quasi surreale. Inquadrando le tavole del palcoscenico durante le prove con gli spalti vuoti, il morale sotto i tacchi, gli applausi incastonati nei ricordi, la chiusura dell’insolito sipario elettrico che esacerba l’arida malinconia. Intenta a circolare nell’aria sulla medesima stregua del velenoso parassita obbligato. Tuttavia il clima d’insicurezza, la privazione dei diritti naturali, riscontrabili pure nella sana fruizione della cultura, il soddisfacimento della mente, del fisico e dello spirito, messo temporaneamente in soffitta, barcamenano sulla superficie. La prevalenza della geografia emozionale, ed ergo degli esterni catartici sugli interni claustrofobici, lascia piuttosto a desiderare: l’effigie del Duomo, dove Placido disquisisce sulla sempiterna magia del teatro con il ballerino piemontese Roberto Bolle, impegnato nella raccolta fondi per il restauro della guglia della Madonnina, sa di programmatico. Persino di accomodaticcio.

Mancano infatti i paesaggi riflessivi necessari ad animare i fantasmi della Scala. All’insegna dello slogan “The show must go on”. Appena sfiorato dall’illustre Andrea Bocelli. Che preferisce costeggiare l’enfasi di maniera. L’utopica tecnica di straniamento, adottata dopo aver raccolto alla buona i pareri ritenuti eccellenti, esibisce l’algido zelo delle squadre di disinfestazione all’opera, per preservare l’industria culturale dall’etereo nemico, e l’avvilente scenario del deserto d’asfalto, ormai arcinoto, pescando nell’ovvio. Julia von Heinz, invece, in Two fathers cerca, se non altro, di prendere le debite distanze dalle soluzioni convenzionali. Preferisce metterla sul piano personale. L’egemonia del versante privato su quello pubblico lì per lì coglie nel segno. La dipartita del padre, l’inattesa scoperta della sua doppia vita, dell’omosessualità tenuta nascosta, le considerazioni affidate alla pur prevedibile voce fuori campo sembrano intimamente avvertite ed emano la fragranza della sincerità. Talora altresì dello stupore. Connesso all’acuto spaesamento. A lungo andare subentrano velleitarie aspirazioni liricizzanti. Che vorrebbero dare lustro alle rivendicazioni collettive. Colpevoli di scambiare i diritti per valori. Lo stucchevole sensibilismo finale, con l’inchino domestico alla figura di Babbo Natale, trasforma l’ampollosa retorica nel sapore dominante. Al contrario Olivier Guerpillon in Liberty, equality, immunity privilegia l’aspetto ludico, e quindi lontano anni luce dalle lagne moralistiche, del richiamo citazionistico. L’attaccamento da esule francese alla Svezia, a Stoccolma, all’efficienza nordica, al bisogno di guardarsi allo specchio, all’interazione tra realtà nuda e cruda ed elaborazione fantastica elegge la fabbrica dei sogni ad antidoto contro gli incubi del recente passato. I rimandi a Il settimo sigillo e Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, ma anche al rigoroso mélo introspettivo Forza maggiore di Ruben Östlund, contribuiscono ad arricchire i timbri antropologici ed etnologici chiamati in causa.

La fascinazione però ha di nuovo il respiro troppo corto. Ed è la palla al piede degli esami comportamentistici che esulano dall’ordinario, con la schematica scoperta di quanto siano importanti certe abitudini così radicate, ad avere la meglio. Con buona pace della carica fantastica innescata dapprincipio con l’inchino al carattere d’ingegno creativo dei maestri di oggi e di ieri. In Mourning In the times of Corona Virus Jaco von Dormael entra viceversa immediatamente in empatia con qualsivoglia platea ed esce dall’impasse dei nani sulle spalle dei giganti. La preoccupazione per il suocero, ridotto al lumicino, costretto a prendere commiato dai familiari tramite un tablet, lo svolgimento dei funerali secondo le ferree regole in vigore, l’arguto passaggio dal colore al bianco e nero sostengono sul serio l’immane peso di un’opera negata alla leggerezza. In tal senso von Dormael, nonostante l’impegno profuso a convertire il risultato figurativo in monito psicologico, risulta orfano della consueta ironia. Come dire: su queste cose non si scherza. Lungi dal farlo, Michael Winterbottom intende inchiodare l’attenzione unanime sulla straziante solitudine nel Regno Unito di Alvin ed Egalantina. L’attesa del permesso di soggiorno, il diniego del lavoro, la nostalgia del paese natìo per la madre sovrappeso, l’attitudine a sconfiggere il tedio con slancio fanciullesco da parte del figlioletto, i pedinamenti zavattiniani, le scontate alterazioni cromatiche, le reazioni mimiche alla noia di piombo, oltre che all’esito rimandato alle calende greche, non offrono un ritratto critico tale da spellarsi le mani negli applausi o da spingere la gente più indifferente ad acquisire coscienza. Isolation chiude il cerchio tentando di sublimare l’alienazione nella poesia. Michelangelo Antonioni rimane davvero di un altro pianeta. Ad accostarvisi sottobanco si rischia il ridicolo involontario.

 

 

Massimiliano Serriello