La folle vita: gli echi tragici di Balboni e Sirot

La folle vita, esordio in tandem dietro la macchina da presa di Raphaël Balboni e Ann Sirot, passa attraverso la capacità della rappresentazione figurativa di acquisire lo spessore dello scandaglio introspettivo.

Imperniato sull’insorgere palmo a palmo d’un impietoso disordine neuropsicologico nell’esistenza della brillante gallerista Suzanne, il loro film rifugge dalle secche dell’enfasi di maniera, ed ergo dai meri espedienti strappalacrime ossequiati dai fan d’ogni svenevole soap opera, affidando, piuttosto, alla virtù di scrivere con la luce il compito di offrire al pubblico un compendio d’intuizioni drammaturgiche ed estrose giustapposizioni beffarde di ben altra pasta rispetto ai soliti polpettoni romanzeschi.

I colloqui dell’immusonito figlio di Suzanne, Alex, e della sua dolce metà, Noémie, ora con lo staff medico, ora col direttore di banca, per via dei soldi scialacquati dalla donna afflitta dall’avanzante perdita del significato delle parole, richiamano alla mente le conversazioni delle varie coppie in Harry, ti presento Sally di Rob Reiner. Con il lavoro di sottrazione, e quindi gli interlocutori nascosti dal ricorso alla camera fissa, sugli scudi insieme all’egemonia dell’opportuna leggerezza ironica su qualsivoglia sbobba mélo. I cangianti colori a tinta unita delle pareti, in grado di riflettere l’altalena degli stati d’animo, i paesaggi riflessivi in cui la geografia emozionale svolge un ruolo di primo piano, certi buffi siparietti domestici, alcuni inattesi motivi di lirismo compongono una cornice narrativa senz’altro poliedrica ed eccentrica. L’ausilio anche della profondità di campo in alcune scene dove l’alta densità lessicale dei dialoghi si accompagna alla spontaneità di tratto delle stranezze manifestate dapprincipio sullo sfondo da Suzanne consente alla tecnica luministica e alla cura dei dettagli garantita dall’alacre scenografia di cogliere diverse sfumature.

Tuttavia l’avventizia coppia di registi, benché costeggi il paradigma dell’estetica che sovverte le ormai tediose norme accademiche per conferire originalità tanto alle prestabilite strette al cuore quanto alle sarcastiche punture di spillo estranee alla retorica, risulta priva dell’estro malicomico dell’inarrivabile Wes Anderson. Di conseguenza la penuria d’un collaudato professionismo, debitamente frammisto al compiuto senso simbolico degli intermezzi surreali, si fa man mano sentire. L’interazione tra musica intradiegetica ed extradiegetica segna in maniera assai prevedibile il passaggio dalle assonanze ai disaccordi nel disegno dei caratteri. Il disfacimento dovuto alla demenza semantica raggiunge l’acme con la reazione mimica di Suzanne dinanzi al dosaggio delle medicine stabilito dalla dottoressa di turno. In quel caso appare evidente che lo spettacolo di seconda fascia della recitazione possegga molte più frecce al suo arco rispetto alle soluzioni espressive di Raphaël Balboni e Ann Sirot.

Nonostante la bravura recitativa dell’intero terzetto – Jean Le Peltier (Alex), Lucie Debay (Noémie) e Jo Deseure (Suzanne) – La folle vita finisce col tralignare il contributo stimolante dell’ingegnosa fotografia nonché dell’impianto scenografico in una tediosa inclemenza ammonitrice. Celata all’inizio dalla scelta di congiungere la tensione formale con l’antiretorica. Costituita, purtroppo, da trovate attinte all’altrui acume. Anziché al proprio. Le ultime bizzarrie dell’anziana mamma, che saluta nuda con nonchalance gli ospiti pagando dazio ai segni del tempo, l’ordine naturale delle cose riposto nel soffio del vento sulle foglie e il rimpianto di aver sacrificato il sogno della genitorialità, per assistere la sfortunata signora negli stati tardivi dell’atroce affezione, chiudono il cerchio. All’insegna del patetico che si tinge di stravagante, del quadro clinico che cede il passo, almeno lì per lì, all’arguzia umoristica, dell’aura contemplativa, con chiari debiti nei riguardi di Jean Renoir, che cala il sipario confermando l’ascendenza esercitata dal territorio sull’essere umano. La folle vita, dopo aver cercato in lungo e in largo le prospettive grottesche giuste per eludere il temutissimo spettro della banalità, ribadisce, così, l’ovvio.

 

 

Massimiliano Serriello