La ragazza con il braccialetto: un legal drama alla francese

Le modifiche escogitate dal sagace sceneggiatore transalpino Stéphan Demoustier rispetto ad Acusada di Gonzalo Tobal, giallo giudiziario intento a tenere gli spettatori sui carboni ardenti in merito allo svelamento della verità denunciando al contempo l’iniqua invadenza degli organi d’informazione, sottraggono La ragazza con il braccialetto alla poltroneria delle idee prese in prestito.

Riuscire ad anteporre i timbri sobri ed essenziali dell’antiretorica all’enfasi dell’accumulo scongiura infatti anche il rischio di mettere troppa carne al fuoco.

L’incipit sulla spiaggia dell’ex villaggio dei pescatori a La Bernerie-en-Retz, nel dipartimento della Loira Atlantica, lo dimostra subito: l’arresto della sedicenne Lise dinanzi ai genitori e al fratellino rifugge da ogni sensazionalismo. Anzi. L’ostentata asciuttezza in campo lungo, seppur contraddetta dall’incalzante musica extradiegetica, va dritta al punto. Insinuando il dubbio sull’algida calma della ragazza che si veste senza battere ciglio. Alla ridondanza degli esami comportamentistici scandagliati dal collega argentino, promuovendo gli estremi motivi d’incertezza e scoramento a oggetto di spettacolo, l’abile ed eclettico Demoustier, forte del copione di ferro redatto per non lasciare nulla all’improvvisazione, replica da par suo in cabina di regia: lo schiamazzo massmediatico, legato al processo che porta alla sbarra l’ormai ex adolescente con l’accusa di aver ucciso la sua migliore amica, il febbrile dinamismo psicologico ed emotivo, l’allettamento dell’iperbole, per imprimere all’apologo sui risvolti privati della cronaca nera l’attanagliante vena d’angoscia degli horror spuri, non lo sfiorano nemmeno. Gli sta a cuore, piuttosto, andare sottopelle. In chiave, dapprincipio, cronachistica. Sulla scorta delle algide geometrie, sul versante domestico ancora appeso a un filo dopo due anni dalla carcerazione, dei movimenti di macchina da sinistra a destra, che preannunciano il dibattimento, dei deep-focus. Per veicolare l’attenzione sui dettagli in apparenza privi di significato. La casa di famiglia e l’aula di tribunale sono i luoghi dove l’austera ed erudita cifra stilistica muta però segno. A lungo andare. Palmo a palmo. In modo quasi impercettibile. Almeno all’inizio.

L’ansia di trarre partito dal ieratico cult Processo a Giovanna d’Arco del compianto Robert Bresson, con l’irrinunciabile lavoro di sottrazione sugli scudi per non cadere nella tentazione d’imitare gli ammiccanti legal thriller d’oltreoceano, cede spazio ad alcune componenti manieristiche. Incapaci di andare concretamente in profondità. Ma in grado lo stesso di tenere desto l’interesse del pubblico dai gusti semplici. Il canonico labirinto d’ipotesi, l’arringa del Pubblico Ministero, una giovane donna dai modi cortesi e dall’arroganza seccante, la passione dell’avvocato difensore, un’intelligente signora di mezza età provvista d’indomabile grinta ed estrema saggezza, gli eloquenti silenzi del papà di Elise, costretto a celare lo stupore di apprendere sconvolgenti ragguagli sulla vita sessuale dell’immusonita figlia, l’intensa testimonianza della madre, impersonata dall’incisiva Chiara Mastroianni, divengono la spia di un’involuzione comunque curiosa. Mentre le notazioni sentimentali prendono piede esibendo l’affanno dell’incomunicabilità e il desiderio di sconfiggerla col buon cuore, sull’esempio del mélo Gente comune di Robert Redford, sia pure con una maggiore sorveglianza delle scene epifaniche, diluite infatti col contagocce, la cura dei dettagli nell’ambito del procedimento nel Palazzo di Giustizia mostra ben presto la corda. Gli interrogatori, i contro-interrogatori, la figura del presidente del Tribunale, sbiadita di fronte e nitida invece di profilo, non aggiungono nulla né al classico clima di mistero né all’idonea suspense di rito.

La simpatia e l’antipatia che emerge dalle dissertazioni, dagli elementi ora d’accusa ora di discolpa, prevalgono malauguratamente sull’evocativo linguaggio delle immagini. Il broncio, l’irriverenza, l’iniziale imperturbabilità di Lise, che nasconde l’impasse dell’autocontrollo dettato dalle circostanze, restano quindi in superficie. Nonostante l’apprezzabile performance dell’esordiente Melissa Guers, guidata a mestiere dall’esperto Demoustier, l’interpretazione dei fatti in corso d’opera paga dazio alle fatue modalità esplicative del tessuto dialogico. Agli antipodi dal distacco critico dalla materia narrativa. Ad appannaggio degli autori decisi a ricavare dalla compostezza formale l’epidermica densità contenutistica aliena ai risaputi spunti di riflessione raccolti tirando le somme dalle moralistiche parabole sociali. Il proposito di creare lo stato d’attesa ideale per ridurre al minimo la sconcertante banalità dell’immediatezza espressiva delle telenovele, e accrescere di conseguenza la magistrale scioltezza delle frittate rovesciate in barba ai guasti dovuti al patetismo intimo, perde colpi strada facendo. Insieme al fascino liturgico del dibattito dall’esito incerto, alla ricchezza dei semitoni, sostituiti al dunque dagli accenti pietistici al pari del gesto di allacciarsi alla caviglia l’emblematico braccialetto elettronico, alla penombra dei taciti affetti. L’obbligo di chiarirli, con un’inquadratura di quinta fedele alle tendenze di punta degli inopportuni affreschi cool, trascina La ragazza con il braccialetto nell’ovvietà. Lontano dallo slancio della poesia. Che, vincendo qualche lentezza descrittiva, scoperchia l’intrigo ed esibisce la punta di diamante dell’imprevisto reale.

 

 

Massimiliano Serriello