Lucio Matricardi: la delicatissima bellezza della parola

La bellezza è il nostro tema centrale, punto di ogni partenza buona. La bellezza per Lucio Matricardi sarà qualcosa che porta con se entusiasmo… ne parleremo… come parleremo a corredo di questo disco dal titolo “Non torno a casa da tre giorni”, lavoro dentro cui la bellezza è dell’uomo, è delle sue interazioni… la bellezza io, ascoltandolo, l’ho trovata anche dentro le contemplazioni del silenzio, di quel che resta, di quel che non si vede e non si tocca. È un bellissimo disco… e noi lo vogliamo sottolineare…

Noi iniziamo sempre parlando di bellezza. Che questo disco ne culla davvero tanta. Per te cos’è davvero la bellezza?
Grazie delle belle parole! La bellezza è qualcosa che ci lega al mondo. La bellezza ti fa parlare con entusiasmo di qualcosa, preme per essere condivisa, è una carezza nei momenti di difficoltà e una droga genuina, un expander nei momenti di gioia. Per ognuno è diversa e questo è il grande mistero che l’avvolge. Esprime il nostro legame con il mondo. Siamo più spinti a “incidere” nel mondo se i nostri sogni contemplano la bellezza.

Che poi la bellezza si scontra oggi più che mai con il contenuto: come gestisci l’equilibrio?
È semplice, il contenuto non deve essere mai forzato. Quando in “Mozambico” parlo di un emigrante o nella “Manna dal cielo” parlo di una bracciante che muore è perché vi ho scorto dentro un principio di bellezza. Una luce nel dramma, un qualcosa che voglio portare con me. Così mi immagino che questo ragazzo spieghi alla sua compagna il posto dove sono arrivati cercando di rassicurarla e questo per me è bello. Penso ai sospiri di questa bracciante nei campi che si attenuano appena un colpo di vento le sfiora la fronte. E questo per me è bello. Penso a come a volte siamo marionette, penso ad un uomo che può sentirsi solo un ‘ombra di passaggio e mai parte di una umanità. Sono pensieri forti, saturi di drammatica bellezza. Che però riportano a me, al mio vissuto. Il racconto non è un giudizio o un trattato di sociologia. Il racconto con le sue mille sfumature poetiche è un modo di entrare in nuovi mondi e la bellezza o della musica o delle immagini serve per invogliare ad entrare.

E come sai dunque di averlo trovato e di aver trovato una vera bellezza?
Eh… non lo so mai! E non potrò mai saperlo. Riesco a dirti che c’è qualcosa di buono per me ed è già tanto. Anche quando nei live questi brani vengono sentiti e percepiti si crea qualcosa di indescrivibile. Come una fratellanza, come un essere una sola cosa nei pensieri. E’ stupendo. Ma quando finisce tutto, mi dico che è solo una canzone, mi sento microscopico rispetto ai problemi reali. Ho un senso forte di fallimento. Ma quella sensazione non va sottratta alla coscienza. Il fallimento è uno stimolo ad andare più a fondo. A sentirsi uomini nella miseria. Sono un grande fan dei miei fallimenti. Però penso che sui diritti umani se ci fossero più vittorie sarebbe meglio. Molto meglio. Ma quello è un campo molto diverso dalle mie semplici canzoni.

Un titolo che si fa vedere… io ci ho visto l’Italia che era, il tempo della nostra emancipazione. Tu?
Bella questa! La racconterò nei live. Si, questo essere a metà strada o all’inizio della strada ha il sapore dell’emancipazione. Hai visto proprio bene. Per me ha anche il sapore del dubbio. Vado avanti? Sono in grado di farlo? Ne ho il coraggio? Oppure ripiegherò come spesso capita in qualche retroguardia? La foto però è lì ad indicare qualcosa che è partita. E forse è inarrestabile come ogni uomo che si cerca. La risposta non c’è. Ognuno ci mette quello che può.

Ed è un disco secondo te politicamente corretto?
Il problema è questo: spesso il politicamente corretto è visto come un rispetto delle forme (sensibilità verso tutti) ma con una malcelata voglia di mantenere lo “Status quo”. Io la situazione attuale per come si presenta non la tollero proprio. Più approfondisco e più mi paralizzano le forme di ingiustizia sociale che vedo. E anche che scopro camuffate dentro di me. E penso che a volte bisognerebbe essere politicamente scorrettissimi per muovere alcuni ancoraggi della mentalità vigente. (Parlo anche di me chiaramente). Ma se correttezza va nel significato originario, quando ancora la “sensibilità” non voleva essere una sorta di totalitarismo, di buonismo di facciata, qui entriamo sul piano etico. E cioè: le cose cambiano quando gli uomini decidono di cambiarle. Un uomo decide attraverso un processo di illuminazione o di autodeterminazione che deve essere libero. Autonomo. Non decide con una violenza dall’esterno. Io credo ancora che si possano scambiare idee forti e convincenti senza distruggere tutto: sensibilità e certezze. Vanno messe in discussione con vitalità, con intelligenza, con credibilità. A volte lo “scorretto” inteso come violenza linguistica però, può avere una funzione provocatoria. Può smascherare ipocrisie. E’ dura! Anche io mi perdo in questo mare. Quindi cosa risponderti? E’ politicamente corretto? Un po’ si e un po’ no. È una risposta un po’ paracula. È politicamente anarcoide e genuina.