Past lives: l’apologo romantico di Celing Song

La conoscenza intima del materiale narrativo trattato nei film d’autore costituisce un’inoppugnabile garanzia di qualità sul piano del contenuto ivi connesso.

Mentre la forma, quantunque capace di conferire alla scrittura per immagini meriti superiori a quelli che effettivamente mette in cantiere, risulta priva di autentica sostanza.

L’esordiente regista coreana Celing Song, trasferitasi in Canada in tenera età, prende spunto in Past lives dalla propria esperienza di vita, all’insegna sia dei legami di suolo sia del confronto tra la connotazione antropologica ed etnologica dell’Oriente e quella dell’Occidente sintetizzata dall’incontro del marito statunitense con l’amico d’infanzia, per poi connettervi sullo sfondo gli stilemi della geografia emozionale. Il rilievo contenutistico permea l’incipit grazie alla virtù di cogliere l’esistenza di sorpresa. Cara agli alfieri del New American Cinema. Il valore aggiunto dalla rottura della terza parete, con l’intensa Greta Lee nei panni dell’intelligente Nora che guarda in macchina verso il pubblico al termine delle ipotesi avanzate dagli avventori del medesimo locale avvezzi allo small talking in merito all’ipotetico triangolo sentimentale accomodato al bancone, sembra lasciar presagire un prosieguo zeppo di soluzioni stilistiche versatili ed estrose in grado di conciliare al meglio forma e contenuto. Il salto temporale all’indietro, intento a mostrare insieme alla Seoul dei rimpianti anni Novanta i teneri palpiti d’amore degli allora dodicenni Hae Sung e Na Young, decisa a cambiare il nome in Nora una volta emigrata nel Nuovo Mondo con la famiglia, risulta invece a corto della fragranza dell’originalità.

La penuria d’un vero sincretismo espressivo è compensata in maniera piuttosto superficiale dalle modalità esplicative dei luoghi eletti a location. A fungere da teatro a cielo aperto, lontano dai banchi di scuola, delle frecce scoccate da Cupido, a un tiro di schioppo dall’adolescenza, dovrebbe provvedere la giurisdizione dell’anima. Congiunta sia in prassi sia in spirito ai vibratili sentimenti appena sbocciati. Viceversa la raffigurazione delle strade, dei vicoli, delle scale, del grande giardino dove troneggia l’affascinante scultura denominata Singing Man, con la mascella che si spalanca mentre l’intesa della coppia in erba prende pudicamente piede nel gioco, non riflette né gli stati d’animo sottesi a ogni emblematico passaggio di stagione né il succo della storia. Affidato nel secondo capitolo, a dodici primavere di distanza dal mesto distacco, alla prevedibilità dello scandaglio psicologico. La riflessione programmatica sul tempo poco galantuomo, sui social usati invano per riunire il filo interrotto, sull’egemonia del bisogno di vicinanza con partner diversi, rispetto alla dolcezza del ricordo rivestito di caratteri utopici, strappa perfino più d’uno sbadiglio. La chiusura del cerchio nel terzo atto, quando altri dodici anni cementano l’interazione tra reale e ideale, salda la partita col viaggio di Hae Sung a New York. Dove abita Nora alias Na Young. L’incanto mélo dura però lo spazio di un mattino. L’ovvia palingenesi dei bimbi che giocavano sui pezzi di marmo designati ad altorilievi, in mezzo all’ordine naturale delle cose illustrato dal polmone verde della penisola madre, negli adulti con la Jane’s Carousel del Brooklyn Bridge Park alle loro spalle tradisce l’impasse dell’opera a tesi scambiata per un’opera d’introspezione ed esplorazione nostalgica.

La risaputa giostra a tre file, coi cavalli intagliati in legno, montata all’estero, simboleggia la fine delle chimere della fanciullezza. Ed ergo dei sogni a occhi aperti. Sostituiti dalla forza significante del provvidenziale affiatamento. La prova dell’intero cast tocca comunque la corda giusta. Riuscendo ad amalgamare il calore dei personaggi al seme del racconto. John Magaro nell’aderire con apprezzabile esattezza di sfumature al comprensivo marito yankee che accoglie la vecchia fiamma della moglie sulla scorta dell’insolita empatia supera d’una spanna le pur riuscite performance di Teo Yoo nei panni del signorile Hae Sung e di Greta Lee nelle vesti della romanziera pronta ad anteporre, sepppur obtorto collo, il frutto maturo del discernimento all’avventizia contemplazione delle origini. Lo skyline metropolitano, gli inutili riverberi estetizzanti, i movimenti di macchina a partire dal basso, i cartolineschi campi lunghi e il cielo dipinto di rosso nei vari tramonti di Past lives stentano, viceversa, ad animare sul serio la scena. Non c’era bisogno di prodezze tecniche. Bastava prendere esempio dalla schietta ispirazione di John Avildsen in Rocky. Con i gradini del Museo d’arte moderna di Philadelphia scalati sulle ali dell’entusiasmo e l’effigie della città natia che redime il pugile di periferia fedele sia al motto mens sana in corpore sano sia al senso d’appartenenza. Un’università della strada fatta di polpa. Anziché di smielati colpi di gomito.

 

 

Massimiliano Serriello