Polvere: sottotesti ed echi della violenza psicologica

Per un regista dirigere un attore-regista, oltretutto co-sceneggiatore e autore del testo originale portato prima a teatro per inchiodare l’attenzione del pubblico in merito alla violenza psicologica che serpeggia nella vita di coppia, costituisce senz’alcun dubbio una risorsa importante.

Lo dimostra la trasposizione cinematografica dell’opera d’impegno civile ed etico Polvere – in uscita nelle sale autoctone a partire dal Nuovo Aquila di Roma il 25, 26 e 27 Ottobre 2021 sino ad arrivare l’11 Novembre 2021 al cinema Arca di Pescara – sopperendo alla distribuzione limitata con l’incontestabile mix di concentrazione ed entusiasmo professionale riscontrabile nella prova del poliedrico Saverio La Ruina.

Degna d’encomio per l’aderenza all’urticante ed emblematico personaggio dell’uomo oppressivo. Intenzionato a mettere all’angolo, step by step, la convivente. Sulla scorta degli incessanti interrogativi, posti dapprincipio in maniera garbata seppur petulante, in linea col risvolto predatorio delle personalità narcistiche. Abituate ad agguantarsi palmo a palmo sulle loro vittime. Spogliandole dell’autostima, dei mezzi pacifici di difesa, della lucidità necessaria a rispedire al mittente le insinuazioni. Frutto dell’insicurezza e della paranoia. Celate dalla vena puntigliosa. Legata a doppio filo all’empia manipolazione. Anticamera o dell’annullamento dell’amor proprio della donna divenuta preda, insieme alla nitidezza del giudizio che guida la decisione d’interrompere i rapporti sbagliati in partenza, o dell’atroce femminicidio. Ai danni delle oppresse colpevoli agli occhi degli psicopatici di sottrarsi alla congerie d’infiniti ricatti morali ed estenuanti domande. Gli automatismi perfezionati ex ante nella fase di stesura del copione, riflettendo sull’amara tematica, e in itinere ed ex post sulle tavole del palcoscenico, per incarnare il maschio alfa nascosto nelle vesti dell’insicuro congenito, offrono a Saverio La Ruina l’occasione d’impreziosire l’assunto per il grande schermo con i sottotesti. Ed ergo con la vita extrafilmica che trascende i limiti dell’analisi razionale. Connessa alla ripetizione. Sostituire la teatralità, intesa nell’accezione negativa, con l’opportuno carattere d’autenticità, è una bella sfida. Raccolta pure in cabina di regìa da Antonio Romagnoli. Le dinamiche interiori ed esteriori del plot chiamano in causa stilemi agli antipodi. Quella che sembrerebbe a primo acchito un’incongruenza acquista invece il valore della polivalenza espressiva ed evocativa. Il fotografo educato ed erudito, cervellotico e ipersensibile, come i protagonisti degli apologhi introspettivi di Ingmar Bergman, quando getta la maschera, passando alle vie di fatto perché non sopporta lo stop proferito dapprincipio a fior di labbra dalla creatura muliebre arrivata alla frutta, diviene parente, nemmeno troppo lontano, dello zotico pugile Jack La Motta in Toro scatenato di Martin Scorsese.

Tuttavia mentre il rimando a Scene da un matrimonio del guru svedese Ingmar, con la suddivisione in dieci scene e dieci bui, tradisce l’impasse dei plagi camuffati da omaggi dai nani sulla spalla dei giganti, evidenziando la penuria d’estro genuino, la variante ottenuta col riferimento in filigrana alle fobie tradotte in manifesta brutalità trascende l’accidia delle idee prese in prestito. Roberta Mattei – indimenticabile sia nei panni della compagna tosta ma leale che spinge lo sbandato Vittorio a mettere la testa a posto in Non essere cattivo di Claudio Caligari sia nella parte della fragile tossicodipendente incapace di aiutare l’ex pilota di macchine da corsa Loris a uscire dal tunnel dell’insalubre droga in Veloce come il vento di Matteo Rovere – dimostra di sentire molto il ruolo. Captando la verità delle passioni, la compitezza iniziale, la pazienza, messa a dura prova dall’indefesso terzo grado dell’importuno convivente, i traumi passati. Rivissuti tuttavia senza centrare appieno – nella reviviscenza affidata più all’inane estensione chiarificatrice dei monologhi sotto scorta che alle debite reazioni mimiche – l’aspetto spirituale. Incorporeo. Combinato alla facciata superficiale. Gli occhi vivaci, il volto ossuto, il corpo magro, le labbra serrate, le forme attraenti, il contegno fine, i freni formali mettono la briglia all’icasticità dei contenuti. La raffica sin dall’incipit d’invocazioni moleste concernenti il linguaggio dei gesti istintivi, il loro significato recondito, non c’entra un granché con gli elementi dell’anima. Scandagliati come Dio comanda dai maestri del cinema nordico. Basti pensare al denso ed evocativo movimento di macchina in avanti di Bergman quando abbranca l’irrimediabile resa incondizionata all’angoscia dell’intensa Harriet Andersson in Monica e il desiderio. Romagnoli, da par suo, non ha alcun talento per i suggestivi effetti creati dalla scrittura per immagini. Che fruga negli anfratti dell’isolamento frammisto ai paesaggi spogli e agli appartamenti regrediti a prigioni. Con il fiume di parole all’infeconda ricerca dell’evasione. La prevalenza viceversa delle riprese statiche, incentrate sui duetti ai limiti della sopportabilità emotiva, coglie abbastanza nel segno. Incorniciando il clima ossessivo con le panchine, il marciapiede, la città sullo sfondo in prima battuta e poi nell’abitazione dove la scusa della comprensione innesca ed esacerba l’alienazione.

Simile allo straniamento delle (anti)eroine delle parabole allegoriche ed esistenziali di Michelangelo Antonioni. Il lavoro di sottrazione, dettato dal budget ridotto all’osso, anziché dalla volontà di togliere al visibile per aggiungere all’invisibile, sottrae comunque linfa ad alcune intuizioni. Che avrebbero necessitato di un’interazione più ampia tra habitat ed esseri umani. Colti nelle debite sfumature dal piacere d’inventare. Oltre che dai severi esami comportamentistici. Dall’atmosfera del sogno. Oltre che dal realismo nudo e crudo. I momenti di tregua, gli interludi di quiete, la calma prima della tempesta evaporano in una bolle di sapone. A Romagnoli interessa la tensione che si taglia col coltello. Saverio La Ruina vampirizza l’intero itinerario scandito dai falsi allarme, dalle ipotesi insolenti, dall’attitudine di dare un colpo al cerchio delle note sociologiche e l’altro alla botte dei thriller insinuanti. L’esposizione opposta del quadro appeso alle pareti, all’altezza della cinepresa, gli sguardi in macchina, i fremiti erotici consumati tralignando l’aspetto giocondo dell’atto sessuale in appetito animalesco e sconforto taciuto, i gemiti, gli abbracci, sprovvisti d’uno stile di ripresa che consente alla potenza dell’invisibile di prendere piede, offrono momenti inquieti ed estremamente malinconici. Ma pagano dazio all’assenza dell’inavvertibile peso dell’aria sperduta, dell’aura meditabonda, dell’attesa infinita, del governo in chiave poetica degli spazi e delle luci. Non basta quindi riprendere in chiaroscuro i lineamenti acutizzati di La Ruina nel momento dell’implicito passaggio tenebroso. Lo schiaffo, le urla scomposte che prevalgono sulla compostezza scopiazzando sottobanco Carnage di Roman Polański senza eguagliarne la sagacia satirica. Il trucco allo specchio, che non mente, il crescendo delle inquisizioni al telefono, gli insulti da trivio, con buona pace dei freni inibitori dettati dalle buone maniere, cercano di ghermire fuori dalla finzione gli appositi istanti epifanici. Congiunti agli oggetti, alle sedie, ai tavoli, ai divani, alla materia. Affiancata allo spirito. Al timore negato, agli indizi accessori. Ai detriti eclissati. Polvere non regge il confronto coi numi tutelari, attinti per travalicare i limiti dell’affresco di denuncia sull’ipocrita mitezza dei carnefici, e regredisce l’arguto margine d’enigma in operistica scipitezza.

 

Massimiliano Serriello