Sul più bello: il teen dramedy dall’omonimo romanzo

L’egemonia dello spirito sulla materia costituisce l’elemento cardine del romanticismo. Ed è in chiave romantica che l’esordiente Alice Filippi, aiuto regista in passato di Carlo Verdone e d’illustri maestri d’oltreoceano (da Ron Howard a Sam Mendes), scandisce la trasposizione del romanzo Sul più bello, disponibile su Amazon Prime Video.

In cui la giovane ma perspicace artefice, Eleonora Gaggero, veste i panni dell’avvenente Beatrice. Un’altera ragazza della Torino bene. Convinta dapprincipio che l’esteriorità conti assai più dell’interiorità ed ergo dei valori sentimentali. Ritenuti fatui e fuori moda dai cinici arrivisti.

La protagonista femminile, Marta, impersonata con brio ed empatia dalla sorprendente Ludovica Francesconi, in grado di aderire appieno agli slanci malin-comici del personaggio sulla scorta dell’incisiva capacità mimica e gestuale, connessa alla lingua sciolta, agevola l’opportuna interazione tra dinamiche interiori ed esteriori. Le modalità esplicative del brano musicale che apre le danze stentano invece ad accrescere l’appeal dell’assurdo poetico. Caro ad autori con la “a” maiuscola. Provvisti della forza immaginifica necessaria ad andare oltre sia i segni d’ammicco delle commedie briose e variopinte sia il ricatto morale delle opere strappalacrime. L’antidoto al grigiore dell’esistenza, compromessa dalla fibrosi cistica che affligge Marta dalla nascita, risiede nel valore terapeutico dell’umorismo. Costretto però a cedere spazio, nemmeno troppo sottobanco, al valore divulgativo della strenua lotta condotta contro l’ardua malattia genetica. A differenza dei cancer-movie Voglia di tenerezza di James L. Brooks e Quel fantastico peggior anno della mia vita di Alfonso Gomez-Rejon, l’autoironia risulta programmatica.

L’introspezione, anziché trarre linfa dalla scioltezza della messinscena, capace ora di convertire le note intimiste in coefficienti spettacolari ora di anteporre all’enfasi pietistica l’arguto timbro riflessivo dei rimandi citazionisti, paga dazio al carattere fugace degli inani segni d’ammicco. I rapidi flashback, attecchiti dalla pur gradevole voice-over, non sono certo baciati dal talento. Che fornisce agli spettatori un nuovo modo di vedere le cose. Al di là dell’ormai convenzionale altalena di scoramento ed euforia. Le inquadrature capovolte, il discorso meta-filmico, con l’omaggio alla forza di persuasione delle sciolte attrici yankee, i presunti sguardi in profondità, giustapposti all’ovvia dinamica del campo e controcampo, stilizzano invano l’impianto compositivo. Ristagnando così nella mera superficie dei colpi di gomito. Anche il ricorso alla geografia emozionale, con Torino eletta ad attante narrativo e a teatro a cielo aperto zeppo di scoperte legate al territorio, tradisce l’ottica ristretta dei rapidi affreschi. Che fanno fatica a riverberare i compositi stati d’animo. L’ampia gamma cromatica garantita dall’alacre fotografia, benché amalgamata a mestiere alle abili correzioni di fuoco, esemplifica alla bell’e meglio l’abbattimento del reale correggendolo, secondo copione, con la ricerca dell’ideale.

L’assenza tuttavia di un’autentica aura contemplativa, da inserire nel confronto dei consorzi domestici agli antipodi, svela la velleità di conferire agli elementi ambientali le magiche trasparenze dell’estro genuino. La verità spirituale degli austeri interni alto-borghesi, dell’eccentrico appartamento dove Marta cementa l’intesa dell’amicizia, insieme agli inseparabili Jacopo e Federica, del posto di lavoro nel quale le ore procedono inesorabili, annunciando offerte, e dell’associazione di canottaggio, in cui l’atletico Arturo tempra la materia, appare appena accennata. Al contrario dell’illustrativo stream of consciousness della Pippi Calzelunghe dei giorni nostri che, a dispetto d’ogni previsione, conquista il cuore dell’indocile ragazzo di buona famiglia. L’uso della metonimia, con le labbra di Marta che si avvicinano al microfono del supermercato sulla falsariga di Uma Thurman alias Mia Wallace in Pulp fiction, aggiunge poco o niente alle possibilità drammaturgiche dell’assunto. Mentre il dinamismo dei movimenti di macchina da un soggetto all’altro giova al turbinio degli affetti, intenti ad acquisire in spigliatezza quanto perdono sul versante dello scandaglio rigoroso, le angolazioni oblique restano fini a se stesse. L’evidente fragilità dell’insieme, con buona pace dell’inchino di Sul più bello alla marcia in più dell’intelligenza e dell’orgoglio, trascina pure la franchezza di piglio, che vince l’atroce morsa dell’angoscia in merito all’incerto futuro, nella smielataggine dei prevedibili women picture all’italiana.

 

 

Massimiliano Serriello