Takeaway: l’ultimo film interpretato da Libero De Rienzo

Qual è l’ostacolo in Takeaway? È il doping. Buttare il cuore oltre l’ostacolo nello sport però significa dare il massimo in una competizione. Tentare di vincere ancor prima della gara. Arrivare preparati. Sudare sette camice, come si dice. Allenarsi con impegno.

Rocky II di e con Sylvester Stallone insegna molto in tal senso. Forse tutto. Mickey, l’allenatore di Rocky, vendendolo deconcentrato, gliele canta chiare: “Per un match di boxe di quaranta minuti ti devi allenare duro quarantamila minuti. E tu non sei preparato nemmeno per quattro minuti”. O una cosa così. Quello che conta è dare il massimo attenendosi alle regole. Temprando il fisico e la mente (l’adagio latino mens sana in corpore sano non è mica coperto di polvere: certi motteggi fanno sempre testo; lo dimostrano i corsi e ricorsi storici), aguzzando la forza di volontà, lavorando tanto sui punti di forza quanto su quelli deboli.

Ricorrere al doping significa prendere le scorciatoie. Fare i furbi. E la furbizia nello sport non è certo una dote: è la risorsa degli antisportivi. Ed ergo degli intrusi. Che barano. Che pescano nel torbido. A soffrire sono gli onesti, i puri di cuore, i ricchi di spirito, magari talvolta isterici (avranno pur diritto a sfogarsi con la rabbia qualche volta), coi nervi tirati come corde di violino, Lo spirito del capobanda, dell’atleta duro nella lotta (anche se una gara non è equiparabile ai combattimenti: alla fine si tratta pur sempre di sport o, almeno, così dovrebbe), ma leale nell’animo, paga dazio ai seguaci delle scorciatoie del cervello, per dirla alla Jim Morrison, delle capacità motorie, del cuore, dell’onore. Renzo Carbonera dietro la macchina da presa col film precedente, Resina, se l’era cavata bene per un verso e peggio per l’altro: sul versante della geografia emozionale ha meritato e merita un caldo elogio (le cose buone a livello stilistico nel mondo della Settima arte restano almeno agli occhi dei cinefili di stretta osservanza); sotto l’aspetto sociologico e introspettivo ha concesso qualche banalità programmatica di troppo affidando ad arcinote modalità esplicative il compito di spiegare coi dialoghi cose che dovrebbe spiegare la scrittura per immagini. Efficiente nel descrivere il microcosmo. Artificiosa nel congiungere il microcosmo alla macroeconomia. E adesso con Takeaway la tenuta registica se cava meglio o peggio rispetto a Resina? Batte sullo stesso chiodo? Muta segno? Le risposte vanno ricercate sempre nella scrittura per immagini. Che nella fabbrica dei sogni, anche quando si tratta d’incubi ad occhi aperti, non mente. Al pari degli occhi nella vita pure fuori dal grande e piccolo schermo. Che sono lo specchio dell’anima. Ad animare il copione, con buona pace dei bisticci di parola, non bastano i contenuti. Occorre la forma. Rinvenibile nella cifra stilistica. I temi di Takeaway appaiono facili da individuare. L’immediatezza espressiva, da questo punto di vista, non va confusa con la scontatezza: la prima è una marcia in avanti; la seconda, una all’indietro.

C’è parecchia carne al fuoco: dalla tirata moralistica sin dalle prime battute con l’effigie dell’universo radiofonico mostrato alla bell’ e meglio in merito agli istituti bancari di credito, alla logica finanziaria, aliena alle ragioni del cuore e ai sentimenti, alla moralità economica alla questione dei farmaci dopanti nello sport, ai trafficoni che li fanno circolare, agli antisportivi che rinascono dalle loro ceneri come l’Araba Fenice, ma non per fare del bene, bensì per i loro interessi facendo del male agli altri, che ci si affidano più o meno ingenuamente (nessuno scende dalla montagna di sapone) sino al contrasto dell’ennesimo microcosmo, della provincia, del mondo piccolo simile, per alcuni semitoni, al mondo piccolo scandagliato da Guareschi raccontando l’humus di don Camillo e Peppone, con il mondo corrotto, dilatato, grasso, pieno zeppo di vizi, di corruzione, di avidità. Nella vita reale il mondo avido sul piano pratico, che antepone la materia allo spirito, prevale su quello piccolo ma onesto, genuino; nella favola, o favoletta (dipende dall’efficacia o meno della cifra stilistica già menzionata come termometro di qualità), vince il mondo piccolo. Ovvero prevale l’egemonia dello spirito sulla materia. Chi vince o perde in Takeway conta solo ed esclusivamente per stabilire se la crudezza oggettiva prevale sull’idealizzazione sentimentale o il contrario. Ad Alice nella città 2021, la sezione del Festival del Cinema di Roma dove Takeaway è stato presentato, i pareri sono stati discordanti. Tot capita, tot sententiae? Sicuramente sì. D’altronde non si può piacere a tutti. Senz’alcun dubbio la geografia emozionale costituisce una freccia all’arco di Renzo Carbonera: il paesaggio nebbioso, la marciatrice Maria che lo percorre, conforme alla virtù degli spazi riflessivi in grado di riverberare l’altalena degli stati d’animo, il selciato, i tragitti, l’interazione tra interni claustrofobici ma rivelatori ed esterni catartici ed entusiasmanti colgono nel segno. Dal punto di vista recitativo i cinefili dalla lacrima facile avvertiranno il classico groppo alla gola nel vedere sul grande schermo Libero De Rienzo vivo e vegeto nel ruolo del protagonista maschile che balla con la protagonista femminile, la marciatrice, sulle note della canzone La notte di Salvatore Adamo.

I cinefili poco propensi a tirar fuori il fazzoletto probabilmente troveranno una barba il brano ricavato dall’album Vikinga apprezzando in ogni modo la performance del compianto De Rienzo, passato anzitempo a miglior vita, indiscutibilmente bravo nell’aderire agli accenti e agli eloquenti silenzi del personaggio. Il resto del cast non gli arriva nemmeno alla caviglia: l’io esteriore prende piede al posto dell’io interiore dei personaggi di rilievo e delle figure di fianco. Con buona pace della scrittura per immagini che cerca di andare in profondità coi movimenti di macchina all’indietro. Inadatti comunque ad allargare il quadro generale concernente i demoni privati, le marce forzate, quelle spontanee, la realtà di entrambe viste negli spogliatoi, la provincia lontana dal progresso e vicina ai valori ereditati dalla tradizione. La sceneggiatura sa molto di moralistico. La morale è cosa ben diversa. La scrittura per immagini per convertire il moralismo in morale e quindi in etica dovrebbe togliere. Carbonera ci prova: inquadra i piedi della marciatrice mentre è in gara; la pedina alla Zavattini, ne costeggia gli sforzi, ne mostra il fiatone, le vertigini, le paure; si sforza di anteporre l’antispettacolarità, intesa come profondità, alla spettacolarità. Intesa come superficialità. Morale della favola? Il confronto tra gli ex allievi e l’allenatore che somministrava loro il doping, insieme alla correlazione del personaggio col paesaggio di montagna, centra il bersaglio: Libero De Rienzo snuda l’io interiore del cattivo allenatore; nell’aria si avverte il freddo climatico che si va ad appaiare alla freddezza del cinismo. Il calore umano, al contrario, cade nell’impasse del moralismo. Aggiungere morale alla morale provoca il pastrocchio: Carbonera mostra la corda. Il lavoro di sottrazione lo contempla. Ma non lo approfondisce. La verità interiore del film resta in superficie. Il finale, scarno, disadorno ed evocativo, non basta ad alzare il tiro. Persino l’antispettacolarità diventa superficiale in assenza di una cifra stilistica che va dritta al punto. Razionalizzando l’assurdo. Come vuole la poesia. Takeaway privilegia, stringi stringi, al contrario, le scorciatoie del poeticismo e del moralismo. Aggiungendo il superfluo. E togliendo la sostanza poetica.

 

 

Massimiliano Serriello