The bra – Il reggipetto: il dramedy di Veit Helmer

Dinanzi all’avvento del sonoro, deciso ad amalgamarsi alla scrittura per immagini, l’inquieto Charlie Chaplin, nel timore del crepuscolo anzitempo, sostenne che l’aggiunta della componente parlata all’espressività pantomimica sarebbe stata come mettere il rossetto sulle labbra delle statue.

Alla caccia dei timbri espressionistici, sulla scia del carattere di sottrazione caro al sobrio ed erudito Robert Bresson, l’ambizioso regista tedesco Veit Helmer, dopo aver inseguito invano la piena notorietà con i film per famiglie all’insegna dell’ingenuo abbaglio dell’avventura, cerca ora l’elezione stilistica nel pretenzioso dramedy The bra – Il reggipetto.

Mentre prima l’intento era quello di esporre le compassionevoli piroette degli sketch, con i bimbi del fantasy action Fiddlesticks sugli scudi, insieme ai vacui lampi dell’acume spicciolo speso per suggerire un’intesa possibile tra grandi e piccini sull’humus degli incanti puerili, le mire odierne sono orientate nel supposto pregio culturale elargito dall’operazione di recupero dei chiari tòpoi del cinema muto.

Sprovvisto sia della capacità di presa immediata esibita dal collega francese Michel Hazanavicius in The artist favorendo il gioco fisionomico rispetto a qualunque velleità autoriale, sia dello stile fosco ed estroso dell’acuto Pablo Berger di Blancanieves, lo sfrontato crucco stenta ad arricchire i patetismi di sorta d’intense ed elegiache astuzie.

Le traversie del ferroviere Nurlan, lontano parente dell’immusonito macchinista prossimo alla pensione del ben più originale ed emozionante Il mondo di Horten, diretto dall’attento Bent Hamer mettendo sull’ago della bilancia l’algido specchio dell’atroce solitudine e il caldo rilievo umano connesso all’inatteso riscatto, soffrono d’incongruenze palesi.

Innanzitutto l’incipit, così sobrio ed essenziale da regredire nell’imprinting respingente dell’assurda anaffettività, anziché sublimare nell’antiretorica in grado di concedere all’invisibile quanto viene sottratto al visibile, è presto smentito da un proseguimento avvezzo all’enfasi manieristica. La necessità evocativa, inoltre, dei campi lunghi scelti per garantire maggiore respiro narrativo e attingere all’introduzione del cult in chiave musical Tutti insieme appassionatamente, serve solo ad allungare il brodo.

La modalità di presenza dei luoghi visti di sfuggita attraverso i finestrini della locomotiva che sfreccia lungo gli hinterland plebei, il bucato appeso a due passi, i bimbi ignari del pericolo sulle rotaie, divenute luogo di tenero divertimento ed ennesima scoperta ricreativa, scade nell’infecondo bozzettismo.

Di contro, nell’assurda speranza di metterci una “pezza”, la tentazione dell’iperbole, congiunta all’elegia sentimentale dei panegirici alla Sergio Leone, giustapposti all’atmosfera stralunata e impassibile anziché alla stilizzazione dell’efferatezza liricizzante, rincara la dose.

Il reggipetto rimasto sul tergicristallo, al pari dei panni sporchi d’ascendenza neorealista, non si lava in famiglia. Bensì innesca una ricerca di stampo picaresco che porta Nurlan, scevro ormai dagli impegni alla guida del convoglio, a svolazzare di fiore in fiore, alla medesima stregua delle api, in attesa della legittima proprietaria dell’indumento intimo.  L’impossibilità di proferire pure mezzo vocabolo lascia ai silenzi carichi di senso, in linea teorica, la parte del leone.

A dispetto degli elementi costitutivi, chiamati a rinsaldare l’attinenza dell’habitat con gli individui schiavi delle passioni, il richiamo della foresta per le piccanti, seppur occulte, nudità, e la miscela dei nessi contenutistici risultano assai sommari. Lo stupore fiabesco, estraneo allo spettacolo torvo offerto sottobanco dai tormenti interni, presenta troppe scollature.

La carica seducente, affidata alle particine di fianco, compresa l’ammaliatrice incarnata dalla persuasiva Paz Vega, cede infine spazio in The bra: Il reggipetto alla china sdrucciolevole del mélo che toglie ogni forza alla virtù di convertire il grigiore giornaliero, riflesso nei ripetuti gesti fusi ai rumori rivelatori, ed esaspera l’ansia di scorgere l’antidoto muliebre all’emarginazione maschile.

 

 

Massimiliano Serriello