The Old Oak: la solidarietà di Ken Loach

La cifra stilistica del regista britannico Ken Loach, aedo indiscusso della working class anglosassone, risiede da circa cinquantasei anni nell’inalienabile contemplazione del reale, nell’opportuna crudezza oggettiva, nella fiera egemonia dell’antiretorica sui vani segni d’ammicco dell’enfasi di maniera.

Nondimeno la sua ultima fatica, The Old Oak, tradisce l’impasse di battere sempre sullo stesso chiodo, con l’urgenza espressiva della denuncia civile tralignata in tediosi predicozzi zeppi d’inani déjà-vu, o, al contrario, mette in cantiere la fragranza dell’originalità?

L’incipit, contraddistinto dagli scatti fotografici in bianco e nero accompagnati dalle grida di protesta nei confronti del pullman dei profughi siriani, di certo non pesca nell’ovvio. Il passaggio alle sequenze a colori, l’effigie della cittadina mineraria fedele ai valori ereditati dalla tradizione, l’efficacia del dato antropologico ed etnologico riscontrabile subito nei volti neolitici degli autoctoni solcati dalle profonde rughe d’espressione confermano l’ottica politica di Ken Loach. Che predica la mutua solidarietà. A dispetto dell’intolleranza. L’aspetto meno risaputo consiste nel fatto che tra i valori ereditati dalla tradizione vi siano le lotte sindacali condotte dalla vecchia generazione. Testimoniate dalle fotografie appese nell’inutilizzata stanza dei ricordi all’interno del pub che dà titolo al film. Per gli avventori locali si tratta dell’ultimo spazio pubblico dove poter dimenticare le ingiurie quotidiane esacerbate dalla povertà. Dilagante in ogni borgo negletto. L’abile sceneggiatura redatta dal fido Paul Levarty riesce ad amalgamare i princìpi connessi al livellamento ugualitario con i vincoli di suolo e di sangue cari a chiunque predeliga lo spirito alla materia.

La musica extradiegetica, chiamata a scandire silenzi già di per sé eloquenti, evidenzia una chiara involuzione. Ken Loach riprendendo spesso di profilo i due protagonisti – Tommy Joe, il proprietario del pub, e l’avvenente ed energica immigrata Yara, decisa a farsi pagare i danni inferti alla macchina fotografica sottrattale dall’irriverente beone di turno – per ovviare ad altri giri a vuoto sembra trarre linfa sia dalla magniloquenza sentimentale mandata ad effetto da Giuseppe Tornatore in Nuovo cinema Paradiso sia dal patrimonio della memoria attribuito da Wayne Wang in Smoke alla forza significante degli scatti fotografici ripetuti nel tempo. Ciò che The Old Oak perde sul versante dell’oltranzismo autoriale, alieno a qualunque spunto che non sia farina del proprio sacco, lo acquista nella spontaneità dei decisivi semitoni. Meritevoli di toccare lo zenith nella tenerezza emanata dalla cagnolina Marra. Vittima della superficialità del padrone d’un facinoroso pittbull. Il lavoro di sottrazione in merito all’atroce dipartita conferisce notevole pudore e pregnanza contenutistica al senso dell’elaborazione del lutto. Mentre il flashback sulla spiaggia, allorché il dolce guaire della cucciolotta raminga ridiede fiducia nel domani all’abbattuto Tommy Joe, risulta, lì per lì, troppo programmatico.

La scontatezza delle modalità esplicative cede in ogni caso la ribalta, step by step, all’alacre analisi degli stati d’animo. Sul piano della penetrazione psicologica, dopo il prevedibile scontro con i clienti forti coi deboli e deboli coi forti, la capacità di congiungere alla disinibita concretezza dell’incontro tra culture agli antipodi il toccante ed emblematico sottosuolo dei gesti trascende l’ovvia andatura dell’opera a tesi. Nel solco dell’inattesa vena immaginifica, preferita nelle battute conclusive a quella malincomica usata di consueto da Loach per cementare il sapore di verità, The Old Oak dimostra di possedere valide frecce al suo arco. Non è il canonico mistero della grazia a ispirarne l’epilogo. Bensì lo spirito di complicità, consolidato dal brivido di osservare l’esistenza attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, il sacrosanto pathos finalmente sotto le righe e la processione di gente pronta a offrire conforto nel lutto. L’omaggio intimo alla famiglia di Yara, divenendo collettivo, oltrepassa, una tantum, i limiti della rigida linea ideologica, estranea alla fede in ciò che non si palesa materialmente, e ospita in sordina, tramite sguardi celeri ma intensi, la carezzevole ipotesi del ravvedimento umano.

 

 

Massimiliano Serriello