Totem – Il mio sole: la penetrazione psicologica di Lila Avilés

Dopo l’intenso ed evocativo film d’esordio, The Chambermaid, imperniato sull’emblematica interazione tra interni ed esterni al servizio della lenta ma liberatoria presa di coscienza d’una cameriera in grado pian piano di affrancarsi dalla gabbia dorata dell’hotel di lusso dove lavora sottopagata, l’abile regista messicana Lila Avilés conferma con Totem – Il mio sole di saper trascendere al meglio i limiti dell’angusto cinema da camera.

Se prima i palesi motivi d’inquietudine trovavano nell’effigie dello skyline attraverso le finestre dell’albergo-prigione un valido antidoto contro l’attanagliante alienazione, equiparando gli stilemi dell’affresco muliebre alle corrispondenze formali delle opere di fantascienza, ora è la casa-mondo in cui viene organizzato il party di compleanno del pittore Tota, in procinto di coniugare la vita all’imperfetto a causa dell’impietoso tumore, ad avvolgere sul versante contenutistico la diffusa sensazione di straniamento.

L’intento principale consiste sia nel connettere gli spettatori all’attesa spasmodica della figlioletta dell’artista ormai agli sgoccioli, Sol, sia nel dilatare il tempo residuo nell’arco della tipica giornata particolare alla Ettore Scola per approfondire le diverse pieghe dei caratteri. Dapprincipio con le sorelle dell’afflitto festeggiato sugli scudi; in seguito col capostipite, dalla voce metallica dovuta al cancro alla laringe, in risalto. Intento ad anteporre gli eloquenti silenzi al costante cicaleggio dovuto ai preparativi in corso. Gli elementi di contrappunto rinvenibili nella stanza da letto oscurata di Tota cementano l’impressione dell’esistenza colta di sorpresa. Attinta ai cavalli di battaglia degli autori avanguardisti statunitensi in voga all’epoca della fantasia al potere. Tuttavia, ben lungi dal cedere all’impasse dei nani sulle spalle dei giganti, Lili Avilés prende le debite distanze dall’accidia degli spunti ricavati dall’estro altrui.

La penetrazione psicologica dipanata step by step, l’ilare rilievo di certi interludi spassosi con i vezzi estetici preferiti ai sospiri affannosi, i brividi di malinconia, la paura di arrendersi allo strazio funebre, i momenti di disagio sostituiti ad arte da quelli d’incanto, la calda spontaneità di tratto frammista ai colpi d’ala visionari riescono ad assicurare all’assunto la fragranza dell’originalità. Grazie pure allo schietto carattere d’ingegno creativo dimostrato nel combinare il mondo dell’infanzia a quello degli animali onnipresenti nei consorzi domestici. Dagli insetti del giardino, ghermiti dalle riprese ravvicinate, al pesce rosso; dal colibrì alle creature ritratte nei quadri del padre morente. Prodigo di abbracci nei confronti degli invitati, una volta alzatosi dal letto. Al contrario dell’indefesso riserbo del canuto genitore. Un nonno poco propenso alle lusinghe con le vivaci nipotine. Nondimeno carico d’umanitá. La struggente tenerezza dell’epilogo risulterebbe inzuppata d’insulsa retorica se Lila Avilés non creasse un rapporto di coalescenza del pubblico con il claudicante Tota. Scosso dall’affetto riservatogli. Contento dell’ultimo saluto concesso dall’Onnipotente. Sorretto dalla badante Cruz. Inquadrato spesso di quinta sulla falsariga del sagace László Nemes nel thriller ascetico Il figlio di Saul.

Mentre le sequenze con la sciamana chiamata a scacciare gli spiriti maligni rientrano in dinamiche piuttosto ovvie, onde far emergere l’attaccamento ad alcuni rituali autoctoni, il timbro antropologico ed etnologico ivi congiunto ricava parecchia linfa dall’uso virtuoso ed erudito della componente luministica. Il volto della piccola Sol illuminato dalle candeline racchiude l’essenza d’un apologo sulla disincarnazione terrena che mette in mostra la forza significante degli angoli bui e delle zone d’ombra. La prova corale degli interpreti contribuisce ad accrescere la solidità dello scavo introspettivo. Specie per merito della bravissima Teresa Sánchez nel ruolo di Cruz. Senza cadere nell’ammirazione incondizionata, giacché Totem – Il mio sole tradisce qualche modalità esplicativa di troppo nell’unire l’orrore del dolore e la felicità del convivio intimo, il passaggio dall’amara contemplazione del reale scandita dai rumori d’ambiente alla dolcezza dell’osservatorio condotto da una bimba d’appena sette anni, sulla scorta del surplus conclusivo della musica extradiegetica, oltre ad ammaliare le masse più avvertite, inumidisce gli occhi di qualsivoglia fruitore. Furbo o ingenuo. E una lacrimetta sincera, in mezzo a tanti ipocriti polpettoni poveri d’idee, non guasta affatto.

 

 

Massimiliano Serriello