Wonka: la fabbrica di Chalamet

Dopo aver posseduto sul grande schermo i connotati dell’attore comico Gene Wilder in Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, diretto nel 1971 da Mel Stuart,e, trentaquattro anni più tardi, quelli di Johnny Depp ne La fabbrica di cioccolato di Tim Burton, l’eccentrico cioccolatiere nato nel 1964 dalla penna di Roald Dahl rivive cinematograficamente nella figura del Timothée Chalamet di Chiamami col tuo nome.

In questo caso, però sotto la regia del Paul King autore del dittico Paddington, quelle che vengono portate in scena in Wonka sono le origini di colui che avrebbe poi messo in piedi l’imponente, gustoso simbolo del consumismo in cui abbiamo visto finire i piccoli vincitori di un biglietto dorato contenuto, appunto, in determinate tavolette distribuite sul mercato dei dolci.

Origini che, nella prima metà del XX secolo, ce lo mostrano ancora incapace di leggere e impegnato a stringere una forte amicizia con la giovanissima orfana Noodle alias Calah Lane, a quanto pare sofferente di sindrome dell’abbandono.

E vi è anche il tempo di assistere ad un veloce excursus riguardante la sua infanzia accanto alla madre cuoca interpretata da Sally Hawkins, a testimonianza della voluta intenzione di ignorare del tutto, tra l’altro, la figura del padre dentista incarnato dal mitico Christopher Lee proprio nella citata trasposizione burtoniana. Man mano che facciamo conoscenza con la signora Scrubbit di Olivia Colman, proprietaria di una lavanderia, con il suo tirapiedi Bleacher, ovvero Tom Davis, e con il contabile Abacus Crunch di Jim Carter; senza contare il villain Arthur Slugworth di Paterson Joseph, anch’egli cioccolatiere, un corrotto capo della polizia nella cui divisa è calato Keegan-Michael Kay e l’altrettanto corrotto sacerdote Julius, dal volto del Rowan Atkinson famoso per il personaggio di Mr. Bean.

Ma, mentre un inedito Hugh Grant ricopre il ruolo di un Umpa Lumpa, come sappiamo creatura di bassa statura che finirà a lavorare insieme a tanti altri suoi simili nella fabbrica di Wonka, inutili risultano gli elogi al lavoro svolto su scenografie, fotografia ed effetti digitali.

Inutili perché ci sarebbe mancato che avessero lasciato anche a desiderare, considerando la produzione di cui stiamo parlando, tanto grossa quanto tranquillamente evitabile; soprattutto perché quel certo inquietante retrogusto (quasi horror) che aveva caratterizzato in maniera atipica e, a suo modo, affascinante i due precedenti lungometraggi è del tutto assente in Wonka, il cui momento migliore è senza dubbio quello in thriller style dell’”affogato al cioccolato”.

Un momento comunque troppo breve e tirato via con eccessiva fretta nelle quasi due ore di visione che, cantate già a cominciare dai titoli di testa, finiscono per risolversi in un banalissimo musical per famiglie il cui volenteroso protagonista, tra l’altro, non regge minimamente il confronto con i sopra menzionati Wilder e Depp.

Qualcuno non ha esitato a definire questo Wonka una “bellissima sorpresa”… ma, con ogni probabilità, a proposito di cioccolata le sorprese sono nelle uova pasquali. Di sicuro non in un edulcorato blockbuster da periodo natalizio che, fiacco e piuttosto noioso, nonostante la curata confezione estetica non trasmette altro che la freddezza delle major prive di idee del terzo millennio, sempre più prese a raschiare il fondo del barile cercando inutilmente di riproporre il calore dei loro successi del passato.

 

 

Francesco Lomuscio