Barbie: come fossi una bambola

Grazie a Barbie tutti i problemi del femminismo e degli uguali diritti sono stati risolti?

Prova a risponderci Greta Gerwig – regista del Piccole donne del 2019 – attraverso questo lungometraggio che, come il titolo lascia intuire, prende le mosse dall’iconica bambola che ha portato tanto successo alla Mattel.

Iconica bambola che, però, sul grande schermo troviamo in carne e ossa, interpretata dalla Margot Robbie anche produttrice dell’operazione.

Una Margot Robbie che, precisamente, si cala nei panni della Barbie Stereotipo, ovvero quella bionda dai lunghi capelli che tutti conoscono, immersa nel colorato (soprattutto di rosa) mondo di Barbieland, dove il belloccio Ken cerca continuamente di conquistarla.

Fino al giorno in cui, resasi conto che qualcosa sta cambiando nel suo corpo, arriva ad apprendere che deve necessariamente catapultarsi nella realtà, a Los Angeles, al fine di scovare la ragazzina che le sta provocando tutto ciò.

Ma, procedendo in ordine, se da un lato il notevole lavoro svolto su scenografie, costumi e fotografia merita di sicuro un plauso, dall’altro Barbie trasuda in più di un’occasione morali decisamente discutibili paradossalmente intrise del tanto scorretto politically correct d’inizio terzo millennio.

Per Barbie ogni giorno è un grande giorno, per Ken solo se lei lo guarda. Ken, che oltretutto la affianca nel viaggio, viene definito totalmente superfluo.

E tutto, arricchito di situazioni cantate, un esilarante cameo per il wrestler John Cena e battute di taglio metacinematografico, non mira altro che a snocciolare di continuo una sempre più stucchevole e scontata critica alla società patriarcale.

Critica che, con abbondanti dosi d’ironia comunque poco divertente, viene ovviamente concretizzata attraverso lo sbeffeggiamento nei confronti del maschio; mentre, in un cast comprendente anche la America Ferrera famosa per il telefilm Ugly Betty, la Kate McKinnon del Ghostbusters 2016 e Michael Cera, Will Ferrel incarna nientemeno che il CEO della Mattel.

Alla fine, però, tra ritmo martellante, Barbie Depressa e Barbie Stramba, in che maniera si può giudicare un film che, rivolto in maniera principale alle piccole spettatrici, tira in ballo anche interrogativi relativi al “bel malloppo” che Ken ha “lì sotto”?

Per non parlare dell’incipit che, in aria di parodia del kubrickiano 2001: Odissea nello spazio, mostra delle bambine impegnate a fracassare i crani dei propri bambolotti per segnare la fine dell’era in cui si giocava solo a fare le mamme. Praticamente, in nome del fastidioso girl power ostentato di fotogramma in fotogramma da Barbie, una disgustosa simulazione d’infanticidio, pericolosa quanto tutti questi blockbuster del terzo millennio diffusori di tutt’altro che educativi messaggi dietro un’accattivante, rassicurante estetica da zucchero filato da schermo.

 

 

Francesco Lomuscio