Gli indifferenti: Alberto Moravia 2020

Il libero adattamento cinematografico del noto romanzo Gli indifferenti di Alberto Moravia, ambientato ai primordi del ventennio mussoliniano, prende le distanze dalla trasposizione per il grande schermo dell’erudito Citto Maselli. Giunto da poco al traguardo delle novanta primavere.

Le interpolazioni poste in essere in fase di sceneggiatura dall’ambizioso regista capitolino Leonardo Guerra Seràgnoli insieme ad Alessandro Valenti fanno leva sulla forza immaginifica dello sperimentalismo. In grado coi previi Last Summer e Likemeback di anteporre agli ormai datati stilemi la tensione formale dell’estetica giapponese e i moduli espressivi di una scrittura per immagini straniante ed estrosa.

La libertà di sperimentazione serve soprattutto a cogliere appieno il tempo dell’interiorità e dell’immaginario ed esaminare compiutamente i profondi fenomeni dissociativi associati all’atroce alienazione. Cara sia ad Alberto Moravia sia a Michelangelo Antonioni. Gli indifferenti rappresenta dunque il vertice della maturità professionale di Seràgnoli? Certamente va apprezzato lo sforzo compiuto per non disperdere l’autonomo scandaglio delle relazioni competitive attuali in riempitivi compiacimenti estetizzanti. Pessimi rimpiazzi delle pertinenti variazioni d’angolo concepite dal guru nipponico Yasujiro Ozu. Il governo degli spazi al chiuso, con le riprese statiche unite ad alcuni vibranti movimenti di macchina, conferisce all’ossatura ritmica, scandita dall’arguta interazione tra musica intradiegetica ed extradiegetica, l’humus ideale al servizio dell’atmosfera d’ininterrotta suspense che accompagna Gli indifferenti dall’inizio alla fine. L’appartamento romano dell’involuta famiglia Ardengo, attanagliata dai debiti, diviene quindi il teatro degli incontri, degli scontri, dei pacati consorzi domestici, dei soprassalti di rabbia, dell’isteria sessuale e dell’indefessa amarezza.

Al cast d’alto rango d’oggi giorno non tremano né le vene né i polsi di dantesca memoria al pensiero del confronto con i mostri sacri impiegati ai tempi da Maselli. Da Rod Steiger nel ruolo dello scaltro affarista Leo Meremuci, che mette in ginocchio il nucleo degli ex privilegiati fingendosi amico, a Paulette Godard nelle mesti vesti della velleitaria padrona di casa. Edoardo Pesce domina le scene con la scioltezza di un veterano garantendo al profilo irritabile dell’autocrate impresario rapace un’insolita gamma di sfumature. Frutto dell’egemonia del lavoro di sottrazione sulla vena gigionesca, ancorché di notevolissimo impatto, del compianto Steiger. Valeria Bruni Tedeschi conferma le doti d’attrice sensibile ed empatica: la “sua” Maria Grazia Ardengo trae linfa dagli sguardi carichi d’inane speranza, ghermiti dalle alacri inquadrature di profilo, e, in chiave elegiaca, dai consueti batticuori connessi al trepidante tono di voce. L’apporto interpretativo fornito invece da Vincenzo Crea, Beatrice Grannò e Giovanna Mezzogiorno traligna il determinante scacco esistenziale, affidato altresì all’intrinseco valore simbolico riposto nell’apprezzabile cura dei dettagli scenografici e nella linea degli oggetti, in mero patetismo. L’esplicito congelamento del dramma, con Leo che piega alle proprie voglie libidiche l’ingenua ed eterea Carla Ardengo, impersonata dalla pur attenta Beatrice Grannò senza riuscire ad appaiare la funzione vitalistica del sex appeal al timido broncio sull’esempio dell’ineguagliabile Claudia Cardinale, non serve a occultare l’impasse dei passaggi programmatici. Alieni alla punteggiatura contemplativa dell’intreccio e alle potenzialità figurative fornite dalla solerte fotografia attraverso i significati premonitori ad appannaggio del gusto intellettualistico.

La resa degli effetti, ravvisabili nei carrelli all’indietro, chiamati a stabilire l’allontanamento da ogni di tipo di calore – ed ergo di conforto – umanitario, e nelle danze, ai confini dell’apologo surreale, pervaso d’insiti risvolti horror, risente parecchio di certe lampanti incongruenze. La mancanza di stringatezza getta alle ortiche il proposito manifesto di togliere al visibile, specie nei sottili ed emblematici cortocircuiti onirici, e, conseguentemente, aggiungere all’invisibile. Con l’eccezione del ripiego contrappuntistico in qualche vano rifugio d’ordine panteista, il dominio degli interni sugli esterni – appena irradiati dal prevedibile riverbero dei vetri dell’asfissiante rifugio dorato – tradisce l’inciampo delle ambizioni avanguardiste fuori tempo massimo nei motivi tradizionali della critica antiborghese. Il personaggio del fiacco Michele, incapace di preservare la sorellina Carla dalle grinfie dell’empio Leo e di sottrarsi all’esca dell’anzianotta Lisa (Giovanna Mezzogiorno), riflette gli intenti pedanti della prova dell’avventizio Vincenzo Crea. Priva della compiutezza mimica dell’intenso Tomas Milian. A dispetto degli insistiti piani di reazione predisposti per porre in risalto il segno lasciato sui volti degli apatici consanguinei ora dalla legittima stizza ora dall’incedere dell’indifferenza. Il colpo d’ala conclusivo, anziché aprire una breccia di fiducia nell’avvenire, attinge alla bell’e meglio ai mélo cerebrali. Gli indifferenti di Seràgnoli, preferendo in zona Cesarini i buoni sentimenti, illanguidisce in tal modo la vanità d’inserire nella fallita coscienza di classe occidentale i dettami della poesia orientale e l’algido acume degli ammiccanti richiami artistici.

 

 

Massimiliano Serriello