La zona d’interesse: l’orrore fuori campo dell’Olocausto

Regista visionario ed eclettico, eletto ad autore dopo essersi fatto le ossa in videoclip commerciali per poi imprimere alla scrittura per immagini di ambiziosi film art-house come Sexy beast – L’ultimo colpo della bestia e Under the skin la forza significante dell’esperienza immersiva attraverso modalità di cognizione diverse dalle ordinarie, l’inglese Jonathan Gazler cerca di scandagliare con La zona d’interesse la banalità del male in seno ai nuclei domestici tedeschi al tempo dell’Olocausto.

La soluzione stilistica ed espressiva scelta per raggiungere lo scopo prefisso, rinvenibile nell’uso sistematico e virtuoso del fuoricampo, secondo i criteri antiretorici già seguiti dal compianto Éric Rohmer ne La nobildonna e il duca, nonché dall’estroso Lászlo Nemes nell’atipico thriller Il figlio di Saul, porta l’acqua al mulino del cinema d’atmosfera.

Le copiose interpolazioni rispetto al romanzo originale di Martin Amis, incentrato sul dipanarsi del pluralismo degli egoistici punti di vista nel corso d’un triangolo sentimentale incurante delle atrocità commesse al di là del muro di cinta, testimoniano l’autonomia artistica di Gazler nel tracciare in filigrana l’intenso contrasto dicotomico tra il presunto Paradiso e l’effettivo Inferno a due passi l’uno dall’altro. La zona d’interesse in questione, ovvero l’abitazione con tanto di giardino e fiume limitrofo dell’autocrate comandante del campo di concentramento sito ad Auschwitz, Rudolf Höss, ricava però linfa più dallo zelo scenografico che dal lavoro di sottrazione. Ad appannaggio di autentici Maestri della levatura di Robert Bresson avvezzi a cogliere la verità interiore delle cose guardando dietro la facciata grazie all’opportuna aura contemplativa.

L’inane egemonia, invece, nel caso preso in esame, del carattere d’autenticità sul timbro frutto dell’ingegno creativo comporta l’assenza di poesia ed ergo di qualcosa d’inedito da contemplare. L’abile governo degli spazi, specie della casa dove il tran tran giornaliero in famiglia rifugge dalle secche dell’enfasi di maniera sulla scorta dell’utilizzo funzionale della camera fissa per agevolare l’ampio fluire dei vari personaggi coinvolti, rientra negli stilemi del mero puntiglio cronachistico. In contrasto con i rumori in lontananza. Provenienti dallo spietato luogo di morte. L’amaro sarcasmo col quale vengono tratteggiate l’efficienza delle scelte logistiche legate all’abominevole sterminio dei prigionieri ebrei e la pressoché totale penuria d’umana compassione cementano una lucida requisitoria d’immediata concretezza ma a corto di lampi d’intelligenza e momenti folgoranti. La disamina antropologica ed etnologica condotta attraverso la fredda e razionale analisi a largo raggio pure dei rintocchi funebri che lacerano la nota intima necessitava d’un corto circuito capace di cogliere nel mix d’ombre e luci la piena penetrazione psicologica dell’orrore ignorato in nome dei fuorvianti problemi del benessere.

Non bastano il fugace ripiego nell’infrarosso, con l’intero schermo tinto per un attimo di color vermiglio, la geometrica precisione dei segni premonitori dal sapore futuristico, l’impressione di osservare i personaggi dentro una sorta d’acquario, per mezzo di sporadiche distorsioni figurative, ad approfondire l’accavallamento delle chiavi simboliche. La prova degli interpreti risulta in linea con l’andatura della fenomenologia esistenziale sotto le righe. Le correlazioni assai meccaniche tra cupio dissolvi e amor vitae tradiscono il pleonastico senso di déjà vu. Vale poco in veste di antidoto contro l’accidia degli spunti attinti ad altri il taglio delle inquadrature ora dall’alto in basso ora in direzione opposta. La zona d’interesse trasporta quindi gli spettatori in un’atmosfera, stringi stringi, superficiale. Senza immergerli mai sul serio nel falso eden in cui si è persa ogni traccia dei migliori angeli dell’indole cara ad Abramo Lincoln.

 

 

Massimiliano Serriello