Laggiù qualcuno mi ama: Mario Martone e Anna Pavignano ricordano Massimo Troisi

“Il cinema di Massimo era bello perché aveva la forma della vita”. Con questa dichiarazione perentoria e poetica Mario Martone dà inizio in Laggiù qualcuno mi ama ad un viaggio penetrante e coinvolgente, insieme ad Anna Pavignano, colei che co-sceneggiò tutti i film di Troisi, fornendogli il baricentro emotivo intorno a cui presero forma, di volta in volta, varie figure e personaggi, evoluzioni di un percorso umano e artistico unico nel panorama cinematografico italiano.

Non è peregrino l’accostamento con un certo immaginario presente nell’opera di François Truffaut: il riferimento è a quell’Antoine Doinel, interpretato magnificamente da Jean-Pierre Léaud, che si poneva in maniera dirompente rispetto alla tradizione dei rapporti con il femminile.

L’inadeguatezza cronica di un uomo che non vuole cedere alla trappola della normalizzazione, ma rivendica orgogliosamente la propria eccezione, contestando le dinamiche imperanti. E in tal modo, senz’altro, si poneva anche Massimo, il cui discorso critico si indirizzava finanche verso tutta quella cultura meridionale sclerotizzata che sembrava non poter essere in alcun modo riformata. Ciò fin dall’esordio Ricomincio da tre, con la celebre battuta-tormentone, quando gli chiedono se è un emigrante e lui, esasperato, risponde che vuole solo viaggiare, fare nuove esperienze. Le donne che si avvicendano nelle diverse pellicole da lui dirette e interpretate sono sempre forti, capaci, attraverso una serrata dialettica, di cortocircuitare il modello maschile dominante: una cultura femminista, dunque, ma non fondamentalista, desiderosa di mantenere un confronto costruttivo, che Massimo ogni volta non solo accettava, bensì rilanciava, perché lo riteneva indispensabile. La fragilità fisica, dovuta alle patologie di cui soffriva, risuonava con una delicatezza interiore chiaramente percepibile e, anzi, molto amata dal pubblico.

Eppure, ovviamente, restava, in forma di contrasto comico-nevrotico, il legame con le proprie origini, a cui seppe sapientemente fornire un plus valore, traducendolo in una forza comica irresistibile. Troisi cortocircuitava continuamente il linguaggio, rendendolo un flusso in cui veicolare i continui cambiamenti di velocità e timbro della sua dizione, facendo regredire la comicità a meccanismi basilari, primordiali, quasi inconsci e lo spettatore rideva di gusto per l’insistenza eroica e ironica (impietosamente ironica) con cui la parola, girando spasmodicamente intorno ai più disparati argomenti, senza peraltro raggiungere mai un approdo, veniva contestata e sabotata. Quello di Massimo era un ‘dis-dire’ che invitava l’ascoltatore a comprendere l’inutilità del significato rispetto alla potenza di un significante che ogni volta sgorgava dal tremolio incessante della voce, annunciando lo sconfinamento dal Simbolico al Reale. La ripetizione ossessiva di un termine, attraverso una modulazione sempre differente di tono, o ostinatamente uguale, faceva precipitare impietosamente il senso e ciò che rimaneva era un suono che, per il solo fatto di essere così svuotato, si caricava di una vis comica imprevista e travolgente.

E poi il corpo di Massimo, che a un certo punto cede: dopo il malinconico epilogo di Pensavo fosse amore invece era un calesse, una sorta di requiem dei rapporti, una dichiarazione circa l’impossibilità di vivere l’amore, arriva Il postino di Michael Radford, con la poesia di Neruda, cioè una trasfigurazione che consente di trascendere i limiti opprimenti dell’ordine simbolico, accedendo a una forma più alta e finalmente respirabile di umanità. E di amore, chiaramente, che costituisce il fulcro centrale di tutta la sua opera. Con il suo essere amabilmente disallineato, Massimo fornì a tutti noi una preziosa occasione di liberazione: ci si poteva scrollare di dosso gli stereotipi impolverati di un mondo decrepito, avviandosi, con il sorriso sulla bocca, verso nuove forme di soggettività. E di ciò dovremmo essergli grati in sempiterno, poiché egli visse sulla propria pelle, condividendolo con noi, un percorso autentico e profondo, fino allo sfinimento, all’esautorazione del proprio corpo che, fotogramma dopo fotogramma, quasi svanisce nei vestiti sempre più ingombranti e logori del tenero postino che chiacchierava delle cose dell’amore con il sommo poeta cileno. Bello, sentito e opportuno è, dunque, Laggiù qualcuno mi ama, l’omaggio di Mario Martone e Anna Pavignano a Massimo. Un gesto d’amore sempre lucido, in grado di mettere bene a fuoco i tratti salienti dell’anima grande di un uomo che difficilmente riusciremo a dimenticare.

 

 

Luca Biscontini