Lazzaro Felice: la favola di Alice che ha trionfato a Cannes

Vincitore presso il settantunesimo Festival di Cannes del premio per la migliore sceneggiatura, andato ex aequo ad Alice Rohrwacher per questo film e a Jafar Panahi per Three facesLazzaro Felice della regista toscana è, a onor del vero, di gran lunga superiore rispetto a quello iraniano.

Alice Rohwracher si conferma come una delle nostre migliori firme grazie ad un lungometraggio intenso e ben scritto, che  affronta il tema fin troppo attuale dello sfruttamento delle persone in tutto il mondo, facendolo nel modo più originale possibile, quasi sfiorando un tema fantasy.

Fin dall’inizio, Lazzaro Felice trasmette un senso di verità tangibile in tutti i protagonisti.

Nei panni di Lazzaro, Adriano Tardiolo è circondato da un cast perfetto, con Alba Rohwracher, Sergi Lopez, Luca Chikovani e un pregevole Tommaso Ragno, uno dei nostri attori forse più sottovalutati, insieme a un cameo di Nicoletta Braschi nei panni  della Marchesa Alfonsina De Luna, personaggio che vediamo per soli dieci minuti nel corso delle complessive due ore, ma che lascia decisamente il segno.

La storia riguarda la tenuta dell’Inviolata, dove cinquanta persone sono vittime dalla fine degli anni Novanta della mezzadria.

Come un villaggio fermo nel tempo, queste persone conducono una vita umilissima soggiogate dalla Marchesa De Luna che li sfrutta, ignari di cosa ci sia fuori dalla loro realtà. Sembra quasi un The village di Shyamalan, ma colpisce il fatto che la storia sia tutt’altro che inventata e che la regista abbia tratto la sua sceneggiatura da una vera, una delle tante che ha visto alcune zone rurali dell’Italia, ancora vittime dello sfruttamento da parte del proprietario della tenuta.

Un villaggio sospeso nel tempo in cui troviamo, appunto, la figura di Lazzaro, che rappresenta la bontà umana e che vive aiutando gli altri, senza cercare la felicità propria.

Per Alice Rohwracher Lazzaro occorre a mostrare come la società sia arrivata al punto di scambiare la bontà e la cortesia con la stupidità. La marchesa sentenzia che ogni uomo è pronto a sfruttarne un altro più debole. I riferimenti e le allegorie sono tante, dal lupo che si avvicina a Lazzaro come a San Francesco senza azzannarlo , perché  “sente” la sua bontà, ad un inevitabile riferimento al compianto Ermanno Olmi, che proprio a Cannes vinse con L’albero degli zoccoli, altra pellicola sulla mezzadria.

Ma la Rohrwacher va oltre il maestro e il film si divide in due capitoli (o atti), dalla vita sospesa del villaggio ad un improvviso salto temporale ai giorni nostri, dopo la scoperta  e la relativa denuncia da parte dell’autorità dell’abuso perpetrato dalla Marchesa.

Qui ritroviamo, ormai invecchiati, i protagonisti, mentre Lazzaro, giovane come all’epoca e dato per morto, si aggira nella città incontrando i suoi “amici”, che vivono di imbrogli, in miseria.

Una continua lotta per sopravvivere, con lui che, a modo suo, cerca ancora una volta di aiutare questa umanità perduta.

Ed è inevitabile chiamare in causa il cinema neorealista, ma sarebbe sempre ingiusto nei confronti della cineasta effettuare altri paragoni.
La bellezza di Lazzaro Felice, che dopo pochi minuti riesce ad affascinare e coinvolgere, fa davvero riflettere.
Il contrasto tra il bene e il male, o, forse, il non contrasto, considerando che questi convivono fin troppo bene nell’Italia che questa favola cinematografica (che tale non è) ci restituisce con tutte le sue contraddizioni.
Lazzaro Felice è un film che rende felici anche i critici più infelici e che, senza dubbio, avrebbe meritato la Palma d’oro.

 

 

Roberto Leofrigio